Sta succedendo qualcosa nel mondo del capitalismo mondiale?
La questione, sulla quale io ho già più volte manifestato, proprio su L’Incontro, la mia opinione basata sulla necessità non più differibile di rivedere le regole del gioco, torna ciclicamente sulle prime pagine dei media.
Soprattutto dopo la grande crisi del 2008 e la nascita dei nuovi populismi, nati come manifestazione di protesta, malessere e sofferenza contro una dirompente diseguaglianza sociale che ha distrutto il ceto medio allargando la forbice tra i ricchi, sempre più pochi ma sempre più ricchi, ed i poveri, sempre più numerosi e…più poveri.
L’ultimo segnale, almeno apparentemente, ci arriva, proprio in questi giorni, dagli Stati Uniti.
Le 200 più grandi imprese americane, aderenti al Business Roundtable hanno sottoscritto un manifesto nel quale si impegnano a ripensare gli obiettivi di profitto verso una maggiore inclusione sociale e di sostenibilità.
Il professor Mario Calderini ci ricorda, sulle colonne de La Stampa, come già negli ultimi anni, i più visionari e avveduti esponenti del mondo universitario e delle imprese avessero dato segnali in tal senso.
Proprio un anno fa, sull’importante rivista Harvard Business Review i due economisti Luigi Zingales e Oliver Hart proponevano la condivisione di un documento strategico con lo stesso contenuto di quello lanciato dal Business Roundtable. A Dublino, nel corso del G8 del 2013, poco prima dell’inizio dell’effetto domino di Brexit, David Cameron indirizzava a tutto il mondo del capitalismo una grande sfida, invitando i capitalisti ad intervenire pesantemente e virtuosamente nella nuova finanza ad impatto sociale.
Lo stesso Larry Fink, il gran capo di BlackRock, esponeva gli stessi valori in una missiva divenuta famosa, intitolata “A sense of purpose” e, nella sostanza, condizionava gli investimenti del più importante fondo mondiale al fatto che l’imprenditore dimostrasse un’attività con un reale impatto sociale.
La sensazione, dunque, che finalmente ci sia oltre al “fumo” del marketing anche “l’arrosto” di una vera e sincera volontà di cambiamento del contenuto del modello capitalistico, si consolida e si sviluppa.
Come già in altre epoche, il capitalismo ha saputo riformarsi al suo interno prima di essere travolto dalle rivoluzioni degli scontenti. E qui ha dimostrato, almeno finora, la sua superiorità rispetto agli alti modelli alternativi di coesione sociale ed economica, via via nati e sperimentati nel corso dei secoli, ma poi anche scomparsi per scarsità di risultati economici o sociali.
Alcuni casi concreti ci dimostrano che il vento sta davvero cambiando.
Mi sto occupando professionalmente del caso Pernigotti, una storica azienda italiana del settore alimentare, finita in mano ad un gruppo turco che, visti i ripetuti risultati negativi del conto economico, ha deciso la sua traumatica chiusura. Dopo una lunga e oggettivamente complessa negoziazione con “in ballo” 100 posti di lavoro, ad oggi tutti in cassa integrazione, si è siglato un accordo per il salvataggio e la reindustrializzazione del sito produttivo di Novi Ligure.
Chi sono stati i candidati al salvataggio? Un’impresa sociale torinese, la Spes, specializzata nella produzione di cioccolato, una finanziaria del mondo della cooperazione, il Governo e la Regione Piemonte, attraverso un intervento articolato sia in termini di capitale investito, sia di facilitazioni al nuovo progetto.
Dunque un nuovo e innovativo modello di salvataggio aziendale che, se si dovesse concludere positivamente, potrebbe rappresentare davvero un benchmark di riferimento per altri dossier analoghi.
Un altro caso interessante lo ha raccontato Dario Di Vico, su Il Corriere della Sera. Il suo è stato il resoconto di una sorprendente visita ad una nuova realtà imprenditoriale friulana, la Electrolux Italia, erede della tradizione nel territorio, sin dai tempi della Zanussi, della fabbricazione di elettrodomestici. Quello che colpisce maggiormente, in questa realtà, è la capacità del management di aver puntato sulla massima valorizzazione delle tecnologie dell’industria 4.0, senza aver avuto alcun impatto negativo sui livelli occupazionali.
L’Electrolux Italia sta dimostrando che il mantra negativo dell’equazione rivoluzione digitale – intelligenza artificiale = maggior disoccupazione può essere scardinato e “rivoltato come un calzino”.
Tra l’altro, come diremo tra poco, in un settore manifatturiero tradizionale e molto competitivo come quella della fabbricazione degli elettrodomestici bianchi.
In sintesi, due sono le grandi e sorprendenti novità che emergono dal caso friulano.
- Le relazioni sindacali: il progetto della new factory è stato negoziato con i sindacati e convalidato dagli operai con una maggioranza dell’80%. A fronte di 130 milioni di investimento, l’accordo si è concluso con l’adozione di 3 turni di lavoro, dal lunedì al sabato pomeriggio, per un totale di 36 ore, retribuite però come se fossero 40.
La risposta della manifattura occidentale, nel mondo degli elettrodomestici sta proprio qui: attingere dalla propria tradizione industriale sapendosi rinnovare. Il ciclo di vita del prodotto si riduce enormemente: un terzo della gamma viene rinnovato ogni anno. Fermi non si può stare, bisogna continuare ad introdurre nuova elettronica o nuova estetica. Senza innovazione continua non si può, infatti, difendere un prezzo più alto del prodotto rispetto ad una competizione asiatica che vende le lavatrici ormai a 500 euro. Bisogna concentrarsi sui prodotti ad alto valore aggiunto perché solo così si può bilanciare la qualità della manifattura italiana con il maggior costo del lavoro.
- E qual è, quindi, la ricetta per poter continuare a fare innovazione? Ci si rivolge al mondo delle start up. L’Electrolux Italia ne ha coinvolte finora 175, adottando via via soluzioni escogitate proprio da questi startupper. Nelle smart factory del futuro, ad esempio, la ricerca dell’ergonomia del lavoro esecutivo diventa una priorità per combattere da un lato l’assenteismo, ma dall’altro per prevenire le più ricorrenti malattie professionali. Lo stesso ragionamento si applica all’utilizzo dei robot che interagiscono con l’uomo-operaio e lo aiutano nelle fasi più pesanti della lavorazione. Nel nuovo modello di relazione tra gli operai e l’impresa, a fronte di una richiesta di maggior partecipazione e responsabilizzazione dei dipendenti, si punta a ripagarli con una maggior attenzione al fattore umano, alla diffusione di uno spirito di comunità, allo sviluppo di strumenti di welfare aziendale: il cosiddetto, in definitiva, “impatto sociale”.
Di Vico ci ricorda nel suo reportage dal Friuli che la scommessa di Electrolux Italia è di poter recuperare, attraverso questo nuovo modello di relazione tra i lavoratori ed il capitalista, un 5% di inefficienze l’anno, la soglia per continuare a rimanere competitivi.
L’obiettivo (e la speranza!) che deve animare tutti noi interessati al rilancio delle nostre filiere produttive è che i due esempi citati possano rappresentare dei riferimenti per una nuova, virtuosa e innovativa relazione tra il mondo del lavoro ed il mondo del capitale. Proprio quella auspicata dal documento del Business Roundtable.
Stiamo a vedere.
Riccardo Rossotto