Nel 1991, quando lo sviluppo del web era ancora agli albori, e i primi social network presto dimenticati come Friendster, Myspace e Sixdegrees non erano ancora stati lanciati, una prima significativa intuizione sull’impatto che la tecnologia avrebbe avuto nello svolgimento della vita quotidiana dei cittadini figura inaspettatamente tra le lettere pastorali del Cardinal Martini della Diocesi di Milano, il quale profetizzava come i media si sarebbero trasformati da “uno schermo che si guarda, una radio che si ascolta” a “un’atmosfera, un ambiente nel quale si è immersi, che ci avvolge e ci penetra da ogni lato”, “un nuovo modo di essere vivi”.
Un’espressione calzante che aiuta a comprendere come le tecnologie, da internet ai social media, non siano soltanto dei meri strumenti di cui l’individuo si serve al bisogno, ma si sono evoluti in una componente necessaria e inderogabile che, a quasi trent’anni di distanza, scandisce e delinea ogni momento della nostra vita, privata e professionale.
Adottando col dovuto rispetto la calzante espressione utilizzata dallo stesso Martini, l’uomo ha approcciato queste nuove tecnologie con la stessa perizia ed esperienza di “un primitivo immerso nella foresta” e solo recentemente ci si è resi conto di quanto un uso non controllato e consapevole di questi nuovi strumenti possa arrecare non solo dei benefici ma anche dei danni altrettanto significativi. Non è un caso se ultimamente stia dilagando la pubblicazione di ricerche e articoli scientifici in cui si analizza, con una certa preoccupazione, l’innegabile riflesso che l’utilizzo smodato della tecnologia durante la giornata possa avere sulla concentrazione, sulla reattività fisica, sui ritmi del sonno.
Perfino le aziende quali la Apple sono coscienti della necessità che l’utente arrivi a sviluppare un utilizzo sano ed equilibrato dei propri smartphone, e permettono che continui a crescere la progettazione di app, sempre più diffuse, che calcolando le ore giornaliere trascorse a “smanettare” sul proprio Iphone aiuta a consapevolizzare l’utente e a sviluppare un’educazione e una routine nell’utilizzo di questi strumenti, imparando a gestire il proprio tempo senza perdere gli innegabili benefici che la tecnologia offre.
Nell’odierno “mondo del lavoro”, sapersi vendere è imprescindibile, e questa innegabile verità ha creato una profonda correlazione tra la vita professionale del professionista e l’esigenza della reperibilità 24h/7 da cui è diventato difficile prescindere: per fare networking e mostrare al proprio cliente di essere competitivi sul mercato, di saper dedicare uno sforzo continuo allo sviluppo delle proprie competenze, bisogna aggiornare continuamente il proprio profilo Linkedin, se si esercita un’attività commerciale che ha un ampio target non precisamente geo-localizzato bisogna farsi conoscere curando i propri profili Facebook e Instagram, per fornire un servizio puntuale bisogna controllare costantemente la casella e-mail ed essere pronti a rispondere in qualsiasi momento. Una premura che rischia, se non limitata ai giusti ritagli di tempo, di incidere sulla qualità del lavoro che si è effettivamente chiamati a produrre.
I danni conseguenti all’uso eccessivo della tecnologia non colpiscono soltanto gli adulti, ma impattano anche tra bambini e adolescenti, dotati dei loro primi smartphone a età sempre più precoci (le statistiche riportano come l’età in media si sia abbassata dai 14 agli 8 anni in meno di un decennio). Il rischio sorge nel momento in cui quell’ “immersione” nel virtuale pronunciata dal Cardinale si trasformi in una contrapposizione con il reale, un ambiente in cui rifugiarsi per colmare quelle carenze emotive provocate da insicurezza e solitudine e isolarsi dal mondo reale, un mondo che appare ignoto, pericoloso, che non si può manipolare a proprio narcisistico piacimento.
Per citare solo le conseguenze più estreme, sta facendo scalpore la diffusione a livello europeo della moda tristemente nota tra adolescenti giapponesi (che prendono il nome di Hikikomori, letteralmente “stare in disparte”) che decidono drasticamente di trascorrere anni interi al buio nelle proprie camere da letto, spesso in compagnia soltanto dei propri pc: un fenomeno che non è dovuto alla dipendenza da internet, ma da patologie di ansia e depressione spesso non curate o identificate, che trovano nella tecnologia e nella solitudine l’unico rifugio sicuro a cui aggrapparsi.
Non si può d’altronde negare come la diffusione di strumenti di tecnologia accessibili alle masse abbia in più occasioni comportato un avanzamento nell’esercizio dei diritti che devono essere riconosciuti negli stati di diritto. La rapidità dello sviluppo di questi strumenti permette una continua diffusione di conoscenze che prima rischiavano di avere un’utenza “elitaria”. Le conoscenze di qualunque natura siano, purché autentiche e scientificamente verificate, rendono il cittadino che sappia padroneggiarle più consapevole, più capace di affrontare le sfide di un mondo sempre più globalizzato che rischia di inghiottirlo.
Il ruolo dei social nella caduta dei regimi moderni è stato innegabile: la Primavera Araba (tralasciando le conseguenze negative che ne sono state diretta conseguenza) ha permesso a quegli individui, quei giovani che non potevano esercitare i propri diritti di voto, di libera manifestazione del proprio dissenso politico (provocato da una disoccupazione giovanile ristagnante al 50%), di diventare soggetti della comunicazione politica, di comunicare e trasmettere ideali e assetti valoriali che si scontravano con quelli imposti dai regimi totalitari che sono poi stati rovesciati; due personaggi controversi come Julian Assange e Edward Snowden hanno innegabilmente incrementato, disvelando notizie top secret, la sensibilizzazione e il dibattito sulla trasparenza dell’attività dei governi, dell’estensione della libertà di stampa, dei limiti che si possono porre alla partecipazione dei cittadini al governo della propria comunità, agli stessi confini dell’habeas corpus.
In conclusione, allo sviluppo incontrastabile della tecnologia non si può rispondere né con un anacronistico distacco, in quanto la tecnologia diventerà parte sempre più integrante della vita della comunità, già oggi è necessario conoscerla e padroneggiarla per essere competitivi sul mercato; né con delle limitazioni “dall’alto”, con dei provvedimenti delle autorità governative che, per limitare fenomeni patologici anche molto diversi come data breach e cyberbullying, finiscano per limitare la libertà di espressione e di diffusione di contenuti, sulla cui provata fondatezza scientifica si fonda lo sviluppo della comunità che sa far proprio quel bagaglio di conoscenze. È necessario, raccogliendo l’appello di Marshall Mcluhan in Mediapolis, capire che i media sono “una città, il luogo dell’abitare umano”. Per citare nuovamente il Cardinal Martini, “sono un nuovo modo di essere vivi”: bisogna abitarli da cittadini, assumendosi le responsabilità civili e politiche che derivano dalla buona co-abitazione.
Edoardo Schiesari