La prima parte di questo lavoro aveva esaminato come la pressione migratoria, che ha dimensioni mai precedentemente conosciute, sia la principale sfida della nostra epoca: un fenomeno troppo importante per poter non essere gestito. Le scelte preconcette su base ideologica non aiutano, serve pragmaticità e lungimiranza.

In questa sede vorrei brevemente esaminare l’esperienza storica delle immigrazioni massicce nella prospettiva dei popoli, come oggi gli europei, che ne sono stati i soggetti passivi.

La conclusione dell’analisi è di univoca interpretazione: se adeguatamente gestite le immigrazioni sono state storicamente benefiche per tutti i soggetti coinvolti, in caso contrario sono sempre state una catastrofe per i popoli dei paesi di arrivo degli immigrati.

Esempi di immigrazioni positive sono le immigrazioni intraeuropee degli ultimi secoli, la cui caratteristica comune è stata una volontà reciproca di integrazione in un unico popolo di abitanti originari e immigrati. La Francia – in crisi demografica fin dall’inizio del XIX secolo – non sarebbe la nazione prospera che è oggi senza milioni di immigrati da Italia, penisola Iberica ed Est Europa, i cui figli oggi non sono riconoscibili dagli altri francesi (diverso è il caso della più recente immigrazione magrebina).  Personalmente vivo in Lussemburgo, dove oltre la metà della popolazione è originaria di altri paesi europei; qui la stragrande parte degli immigrati, che abbiano o meno ottenuto la cittadinanza, ritengono utile rispettare le regole e cooperare per il benessere comune. Quando i Savoia ebbero la Sardegna, all’inizio del XVIII secolo, la trovarono sottopopolata e promossero una fortissima politica di immigrazione; anche in questo caso, i discendenti di quegli immigrati non sono distinguibili dagli altri sardi. Tutto l’est della Germania è stata oggetto da una pianificata politica immigratoria dall’inizio del XVII secolo.

Più controverso è l’esito dell’immigrazione nel continente americano da parte di europei e di africani (questi ultimi, in maniera forzata). Non c’è dubbio che per molti diseredati arrivati dall’Europa sia stato un grande beneficio, in misura ancora maggiore per i ricchi che hanno avuto a disposizione tanta manodopera a buon mercato. Oserei affermare che, in generale, dopo generazioni di sofferenze, perfino gli africani vivano mediamente meglio di coloro che sono rimasti nei paesi di origine. Quindi un caso di immigrazione massiccia positiva? Ma cosa dire se ci poniamo dal punto di vista dei popoli originari di quelle terre? I pochi nativi nordamericani sopravvissuti sono confinati nelle riserve. Gli indios dell’Amazzonia e della Patagonia hanno subito una politica di sterminio e di conversione religiosa forzata. Le popolazioni andine non hanno perso soltanto la propria cultura: sono stati privati di tutto, sia i poveri sia le classi dirigenti, e usati come schiavi nelle miniere d’argento.

L’immigrazione, poi, può essere usata come strumento di annientamento di un popolo. Detto a coloro che, come me, hanno a cuore la causa tibetana: lo sappiamo che un ipotetico referendum per l’indipendenza sarebbe sonoramente sconfitto? La Cina ha organizzato un’immigrazione di popolazione Han, che oggi è la maggioranza in Tibet e i nuovi arrivati gestiscono non solo le posizioni di potere e gli impieghi pubblici, ma anche Il “business”. Qualcosa di analogo è successo al Sikkim, annesso all’India nel 1975. Gli occupanti hanno consentito una fortissima immigrazione di nepalesi e bengalesi e, nel giro di una generazione, gli abitanti originari sono una minoranza in quella che era casa loro, e sono oggi fortemente impoveriti.

Uno dei casi più studiati di immigrazione di massa è quella occorsa nel basso Impero Romano. La situazione di partenza era un sostanziale melting-pot dove popoli successivamente conquistati si erano integrati, pur nel rispetto di differenze linguistiche e religiose, e che, di pari passo con la realizzata integrazione (non prima!), avevano tutti ottenuto la cittadinanza romana.

Purtroppo, la crisi demografica in atto era diventato un problema di sicurezza nazionale: non c’erano sufficienti soldati per presidiare l’imponente sistema di difesa dei confini impostata da Traiano e non c’erano abbastanza braccia per sostenere l’economia agricola della Stato. Allora (come oggi?) fu quindi indispensabile promuovere l’afflusso di immigrati. Tale politica di immigrazione, selettiva e in numero sensibile ma ragionevole, quella che io definirei “immigrazione gestita”, stava funzionando egregiamente. Per avere un’idea del raggiunto livello di integrazione dei nuovi arrivati, pensiamo solo a quanti personaggi di origine barbarica nel IV secolo servivano egregiamente la causa dell’impero, anche ai suoi vertici.

Il disastro avvenne nel 378, quando l’imperatore Valente consentì l’ingresso non più a un numero ragionevole di individui desiderosi di integrarsi, ma a una massa organizzata (nel caso specifico, di Goti). Ne nacque un’entità fuori controllo, una sorta di stato nello stato, e, nel giro di pochi anni, dapprima le forze armate dell’impero furono distrutte dai nuovi arrivati, poi furono devastate campagne e città di provincia e infine a farne le spese furono anche le classi dirigenti, quando Roma fu saccheggiata.

I danni diretti del “Sacco di Roma” furono abbastanza contenuti, ma le conseguenze furono enormi: non si ricostituì mai più uno stato, con cittadini con senso di appartenenza e disponibilità alla cooperazione (melting-pot): le frontiere crollarono e non ci furono più barriere, mentre gruppi organizzati e “chiusi” (società “multietnica”) si scontrarono fra loro, esclusivamente sulla base della legge del più forte. Quanto agli abitanti originari, se all’inizio furono le classi più deboli a pagarne le maggiori conseguenze, nell’arco di poche generazioni anche i privilegiati furono travolti: nel VII secolo nessuno dei latifondisti italiani aveva un nome latino.

Se la storia è strumento per capire il presente, è evidente che una politica di accogliere chiunque arrivi sia suicida. Le frontiere servono, e vanno presidiate.

Ma la storia ci ha anche insegnato che nessuna fortificazione, da sola, è resistita per sempre quando è venuto meno il numero di difensori. Questo è il nostro caso. Il differenziale di tasso di crescita e di piramide anagrafica rispetto ad altre aree del mondo rende indispensabile per l’Europa una politica immigratoria. Questa però non va subita, dobbiamo individuare chiaramente numeri e caratteristiche di massima ex-ante dei soggetti più adatti all’integrazione, mettere in atto serie politiche sociali per aiutarli all’inserimento (dobbiamo anche finanziariamente investire di più!) e controllare ex-post la loro reale capacità di essere “nuovi europei”. Per tutti gli altri una politica di respingimento e riaccompagnamento nei paesi d’origine è indispensabile.

Troppi errori sono già stati fatti. Non mi riferisco tanto ai barconi nel Mediterraneo – sono numeri emblematici ma piccoli – ma al fatto che molte zone d’Europa, in primis in Francia e Belgio, sono diventate aree off-limit dove vive un altro stato: il preoccupante scivolamento tra il modello del melting-pot (cooperativo) verso quello multietnico (contrappositivo) è iniziato da molti anni.

Roberto Timo

Roberto Timo

Consulente aziendale (già Bain & Cuneo), banchiere d'affari (già gruppo IMI) ed esperto di fondi pensione (già Callan, Timo e associati), vive in Lussemburgo da molti anni dove prosegue l'attività...

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