Un tema di assoluto interesse quello della parità di diritti e di doveri tra uomo e donna all’interno della famiglia,  affrontato dal Comune di Torino in un  convegno tenutosi  in  occasione della ricorrenza della Festa della Donna. Nel 1975 entrava in vigore la legge n. 151 – approvata all’unanimità dalle forze politiche costituzionali, con qualche astensione del movimento sociale  –  sulla riforma del diritto di famiglia: 50 anni di vita di una legge che ha segnato una svolta epocale nella società italiana.

Una novità legislativa della metà degli anni ’70  del secolo scorso che, recependo l’evoluzione della società nella fine degli anni ‘60  (caratterizzata dai movimenti femministi e studenteschi) ha sostanzialmente modificato, sotto l’aspetto formale, gli equilibri all’interno della famiglia italiana,  che da “patriarcale” diventa paritaria per i diritti e doveri tra i coniugi, abbandonando il modello gerarchico che vedeva a capo della famiglia l’uomo, per la moglie e per i figli, naturali e legittimi  finalmente ora uguali per la legge. L’uomo, essendo venuto meno il patriarcato maritale del codice civile del 1942,  non può più decidere l’indirizzo della famiglia ( spostare la propria residenza e pretendere che la moglie lo segua ovunque) che, ora,  deve essere concordato tra i coniugi, sulla base della condivisione.

Il marito non deve più proteggere e tenere con sé la moglie (provvedendo alle sue esigenze in relazione alle proprie sostanze), ma entrambi  coniugi devono provvedere ai bisogni della famiglia in base alle proprie possibilità e capacità professionali. Finalmente viene citato nel codice civile riformato  anche il lavoro domestico, prima non menzionato. Molto importante il fatto che  venga  riconosciuto come regola ( e non come eccezione) la  comunione dei beni quale regime patrimoniale della famiglia: ciò che viene acquistato anche da un solo coniuge durante il matrimonio, appartiene di diritto anche all’altro coniuge, seppur con qualche eccezione.

Viene abolito l’istituto ormai desueto della dote da parte della donna e viene  previsto e riconosciuto nel codice civile  il contributo  del lavoro di un congiunto (anche con la possibilità di far valere la propria opinione) all’interno dell’impresa familiare, laddove tale tipologia di lavoro molto spesso non viene regolamentata. Va da sé che di tali norme abbiamo beneficiato, all’interno della famiglia, soprattutto le donne, in quanto  soggetti più deboli.  E’ vero che la costituzione italiana del 1948 aveva sancito il principio di parità di tutti i cittadini  – e di tutte le cittadine – ma  all’interno della famiglia, pur  stabilendo  il principio di parità morale e giuridica dei coniugi, venivano fatti salvi i limiti stabiliti dalla legge  a garanzia dell’unità familiare, proprio per via della precedente vigenza del codice civile del 1942 in materia di famiglia.

La riforma del 1975 è  stata una tappa, molto importante, ma non esaustiva nel processo di uguaglianza tra uomo e donna all’interno della famiglia. Nel  1981 è stato abolito l’ingiusto  delitto d’onore che prevedeva pene ridotte per l’omicida offeso nel cosiddetto “ buon nome” della famiglia  e nello stesso anno è stato anche abolito l’odioso “matrimonio riparatore” che faceva venir meno il reato di violenza sessuale – anche nei confronti di una  minorenne – se il colpevole avesse sposato la vittima!  Non si dimentiche poi che soltanto nel 1996 lo stupro è stato finalmente considerato dalla legge penale reato  contro la persona e non solo più contro la morale.  Che dire della possibilità del doppio cognome  – del padre e della madre –  da trasmettere ai propri figli?

La Corte Costituzionale, nelle more del legislatore, è intervenuta nel 2022 sancendo, in applicazione del principio di eguaglianza,  la possibilità di trasmettere ai figli anche il cognome della madre, in aggiunta  a quello del padre.  Sul punto, tuttavia, come osservato dalla professoressa Long del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino, vi è molta poca informazione da parte dei neo genitori, che si concretizza nei molti dubbi in merito alla “novità” e nel raro utilizzo pratico di questa possibilità anagrafica. In tema di diritto di famiglia ha rivestito molta importanza nel 2016 il riconoscimento legislativo delle unioni civili tra persone dello stesso sesso  – e solo tra esse  –  anche se, nonostante si senta spesso definire impropriamente l’unione civile “matrimonio” permangono differenze sostanziali con esso.

Nelle unioni civili, per fare un esempio, manca l’obbligo giuridico di fedeltà dei componenti della coppia, riconosciuto invece dal codice civile per i coniugi tradizionali. Una svista, un’umiliazione per le coppie dello stesso sesso, oppure un superamento di un concetto non ritenuto più eticamente così essenziale nelle unioni di coppia? Non è questa la sede per addentrarsi in questo argomento, limitando l’osservazione alla differenziazione di trattamento giuridico rispetto al matrimonio tradizionale vero e proprio, riservato esclusivamente,  alle sole coppie eterosessuali. Ma dove veramente vi sono le differenze più importanti  nella legge delle unioni delle coppie di stesso sesso è in punto  filiazione, come è stato osservato dal professor Vercellone dell’Università di Torino, dipartimento di Giurisprudenza.

E qui si tocca davvero un argomento molto scottante, essendoci di mezzo i diritti dei minori delle coppie  dello stesso sesso. Si auspica al riguardo  un urgente  intervento legislativo, oltre che giurisprudenziale, anche per parificare le coppie di donne  (avvantaggiate nella trascrizione dell’atto in Italia  se il bambino  nasce e viene legittimamente riconosciuto all’estero) rispetto alle coppie di uomini, nei confronti dei quali vige nel nostro Paese ancora il  grosso pregiudizio di carattere etico sulla gestazione per  conto di terzi., sfociato di recente nel nostro ordinamento    come  reato universale, il quale espone i genitori stessi a responsabilità penale e a gravi sanzioni pecuniarie.

Volendo tirare le fila in punto eguaglianza sostanziale di genere dopo cinquanta anni dall’entrata in vigore del nuovo diritto di famiglia, dove permangono le maggiori differenze sostanziali  di genere? L’opinione pubblica è concorde nel dire nel campo del lavoro.  La statistica evidenzia chiaramente che la percentuale delle donne occupate (circa il 52%) è decisamente più bassa  –  anche  a livello europeo  – rispetto a quella degli uomini, ma il dato più negativamente significativo è quello relativo alla retribuzione media a parità di professioni, laddove si evidenzia per vari motivi ( inquadramento, straordinari), un gap medio del 20% in meno degli stipendi delle donne, con punte massime nel settore della finanza nonché in quello scientifico/tecnico e con punte minime nel settore pubblico.

Va da sé che un minore stipendio ora significherà una pensione più bassa in futuro per la donna.  Anche il fenomeno  del part time evidenzia una diseguaglianza di genere, laddove i due terzi – quindi ben il 75% – dei fruitori è costituito da donne  ( per non parlare del fatto che spesso il part time non è neppure una scelta, ma talvolta viene imposto dal datore di lavoro). In linea generale,  molte delle  differenziazioni del salario  di genere  si potrebbero poi  individuare  le diverse scelte di indirizzo di studio preferite dal genere femminile, che  ancora oggi, in buona maggioranza, preferisce le materie umanistiche rispetto alle stem che, in prospettiva, in quanto più  qualificanti, offrono più opportunità di lavoro e meglio retribuito nel settore scientifico e tecnico. Si auspica che l’entrata in vigore nel prossimo anno della Direttiva UE n.970/2023 sull’obbligo di trasparenza dei criteri delle retribuzioni da parte dei datori di lavoro, almeno in parte, migliori questa situazione di disparità di genere nel trattamento salariale.

Per concludere, la riforma del diritto di famiglia, ormai cinquantenne,  che ha ammodernato il codice civile  del 1942, è stata un’importantissima svolta nell’evoluzione del diritto di famiglia, ma ciò nonostante è comunque da considerarsi una tappa nel lungo e difficoltoso cammino della parità sostanziale tra uomo e donna nella famiglia   (ora anche composta da persone dello stesso sesso), nel lavoro e in ogni ambito sociale. Il messaggio che può essere trasmesso con queste riflessioni è quello che i diritti devono comunque e sempre essere esercitati e difesi, non potendosi, purtroppo, dare sempre per scontati. Per quanto ovvio, la politica e la società devono fare la loro parte nell’attuazione della  parità sostanziale di genere nei diritti e nei  doveri. Ma, non ultimo, sotto l’aspetto culturale, le donne stesse devono sempre credere in se stesse e nelle loro capacità!

Liliana Perrone

Liliana Perrone

Consulente legale di Intesa Sanpaolo

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