Quest’anno ricorre l’ottantesimo anniversario del “25 aprile”. Per ricordare una data così importante, spartiacque nella storia del nostro Paese, il Corriere della Sera di Torino pubblica per 5 domeniche (la prima è stata lo scorso 9 marzo”) un’intera pagina dedicata a quanto successe nel capoluogo del Piemonte, dalle settimane precedenti l’insurrezione (che si potrebbero definire “la fase preparatoria”) sino ai giorni tragici ed epici di fine aprile.

Nell’ultima settimana, questa pagina “del ricordo” avrà cadenza giornaliera. Siamo orgogliosi nel comunicarvi che autore di queste cronache della Resistenza torinese è il nostro editore, Riccardo Rossotto, apprezzato storico, in particolare degli accadimenti secolo scorso. L’Incontro seguirà la vicenda riprendendo di volta in volta gli argomenti pubblicati dal Corriere, presentando però una versione più ampia e articolata, sempre a opere di Rossotto. Buona lettura.

Milo Goj

 

Qual era l’organizzazione della resistenza a Torino in quell’inizio del 1945, pochi mesi prima della liberazione della città? Le migliaia di testimonianze raccolte in questi anni ci rimandano a un affresco della popolazione di Torino, da un lato, angosciata e tragicamente affaticata dai continui bombardamenti alleati e dalle operazioni sempre più frequenti ed efferate delle varie numerose polizie fasciste, supportate dal comando tedesco locale; dall’altro lato, un atteggiamento speranzoso e determinato nell’appoggiare con grande generosità e spirito di solidarietà, tutti quei cittadini che avevano deciso di collaborare direttamente nella lotta clandestina contro il regime.

Inoltre, tutto il mondo operaio era ormai pronto, nei primi mesi del ‘45, a riprendere l’organizzazione dei grandi scioperi già avvenuti negli anni passati, continuando un’attività di sabotaggio degli stabilimenti mirata in parte a ridurne la produttività, ma in parte anche a salvaguardare la funzionalità degli impianti da possibili distruzioni ordinate soprattutto dai tedeschi. Il protagonista di quei tragici ma eccitanti giorni della recente storia della nostra città che mi trasferì meglio l’atmosfera, il clima e le speranze che regnavano tra i nostri concittadini, più o meno impegnati o coinvolti nella lotta clandestina, fu Carlo Mussa Ivaldi. Comandante partigiano, nato nel 1913, nome di battaglia prima “Carletto” poi “Mazza”, Mussa Ivaldi fu Commissario politico del Partito d’Azione e poi divenne Commissario di zona.

Conobbe anche la galera quando, nel marzo del 1944, fu arrestato a Milano e rinchiuso a San Vittore. Mussa Ivaldi riuscì a fuggire dopo aver sopportato pesanti torture senza rivelare nulla sui suoi compagni di clandestinità. Fu insignito della medaglia d’argento al valor militare per un’azione partigiana contro un posto di blocco nazifascista, proprio all’ingresso di Torino, il 3 aprile 1945, quando aveva ripreso il comando dei suoi ragazzi nella periferia della città. Nel dopoguerra, scomparso il Partito d’Azione, si iscrisse al Partito Socialista e fu eletto in Parlamento per due legislature. Era un poliglotta, parlava correntemente più di sei lingue tra cui il russo: Ada Gobetti nel suo “Diario partigiano” ne ha sintetizzato così la sua figura: “Coraggio fisico, grandi doti di organizzazione e di comando”.

Conobbi personalmente Carlo Mussa Ivaldi nel 1972, a Torino, quando stava per concludere il suo secondo mandato come parlamentare del Partito Socialista Italiano. Era un amico di mio zio Carlo Felice Rossotto, liberale ma aperto al dialogo con i socialisti riformisti che stimava. Avevo quasi vent’anni e facevo parte della Gioventù Liberale di Torino. Avevo già la passione per la storia e stavo proprio facendo una ricerca sulla liberazione della nostra città nell’aprile del 1945. Carlo Mussa Ivaldi mi dedicò del suo prezioso tempo per raccontarmi nei dettagli l’organizzazione, le criticità, gli obiettivi quotidiani che caratterizzavano il movimento insurrezionale torinese, in quei primi mesi del ‘45, poco prima dello scontro finale. Dagli appunti che ho conservato di quella affascinante e indimenticabile conversazione emerge una puntuale disamina di quali fossero i vincoli e le criticità di dover pianificare delle azioni armate in un grande centro cittadino, come era Torino. Un’analisi che, a distanza di anni, sarà poi ripresa tragicamente dalle Brigate Rosse all’interno della loro strategia di destabilizzazione dello stato di diritto.

Secondo Mussa Ivaldi, se si vuole comprendere la complessità di un’organizzazione clandestina operante in un grande centro cittadino, bisogna preliminarmente tener conto di due elementi importanti. Innanzitutto, l’attività era resa estremamente difficile dalla presenza proprio nelle grandi città dei vertici delle organizzazioni militari e poliziesche del nemico. Era quindi un controllo del territorio molto più serrato con servizi di ronda e coprifuoco più efficienti che in qualsiasi altra zona. Inoltre, si erano consolidate delle reti spionistiche sempre più efficaci nel portare a termine delle delazioni o comunque nel terrorizzare i cittadini in tal senso. Ogni eventuale blitz organizzato dai resistenti doveva poi fare i conti con la struttura urbanistica del centro cittadino, irto di vicoli, piazzette, luoghi angusti dov’era molto difficile programmare delle ritirate dopo aver effettuato l’attentato.

I blocchi operati dalle forze di polizia o dell’esercito tedesco rendevano spesso complessa per non dire impossibile la programmazione di azioni militari. Inoltre, ogni attentato in città aveva un’immediata e vasta risonanza nell’opinione pubblica: le autorità locali avevano quindi come priorità assoluta quella di prevenire e sventare, anche attraverso interventi crudeli e spietati, ogni tipo di accenno a proteste o veri e propri piani di sabotaggio. La minaccia di rappresaglie era quotidiana e compariva anche nei manifesti affissi sui muri delle abitazioni torinesi. Gli abitanti del centro cittadino, mi raccontava Mussa Ivaldi, erano diventati un gigantesco “ostaggio” a disposizione del nemico in ogni momento e in quantitativi illimitati: “Di qui la necessità di operare con estrema cautela per non causare ulteriori sofferenze alla popolazione”, mi diceva.

Ma qual era l’organizzazione che presiedeva alla programmazione e realizzazione delle attività militari in città? La “governance”, come la chiameremo oggi, vedeva in cima alla piramide gerarchica il Comitato di Liberazione Nazionale Regionale a cui faceva riferimento il comando militare del CLN. Dal settembre 1943 fino all’aprile del 1945 la sede del comando rimase a Torino nonostante le retate, gli arresti, le torture e le fucilazioni operate dalle autorità fasciste o tedesche. Dobbiamo tutti ricordarci però – mi segnalava con grande precisione l’ex comandante partigiano “Carletto“ – che “ogni grave momento di crisi derivante dall’arresto o dall’uccisione dei vertici del movimento resistenziale (come il Martinetto) non portò mai ad una paralisi completa dell’attività necessaria. Nel giro di pochi giorni veniva ricostruita la catena di comando e il lavoro organizzativo e di coordinamento dei vari gruppi clandestini operanti in città non subiva mai delle interruzioni”.

Questo era un motivo di orgoglio particolare per il mio interlocutore. Di fianco all’attività di direzione politica e militare, esisteva un’organizzazione dedicata alla pubblicistica e quindi alla continua informazione della popolazione su quanto stesse accadendo in città. Durante tutti i 20 mesi della guerra civile, la stampa dei partiti non cessò mai di circolare a Torino. Nonostante la tremenda repressione ordinata ed eseguita dalle autorità nazifasciste (l’essere trovati in possesso di stampa eversiva era sostanzialmente analogo a venir trovati in possesso di armi o esplosivi con le conseguenze gravissime sul piano personale) la gran parte della cittadinanza torinese dimostrò un grande spirito di solidarietà, supportando sempre, senza soste, l’attività di coloro che si occupavano di redigere e stampare nelle tipografie clandestine tutti i fogli degli organi dei partiti. In una delle prossime puntate approfondiremo proprio questo aspetto della resistenza a Torino, attraverso il ricordo di uno dei principali protagonisti dell’editoria clandestina operante in città per tutti i 20 mesi della resistenza, Franco Venturi.

Un contributo fondamentale all’attività resistenziale, come dicevo, la diedero gli operai delle numerose fabbriche di Torino e della prima cintura. Mi riferisco ai grandi scioperi che ebbero luogo tra il 1943 e il 1945 che sfidarono il regime nelle piazze e nelle fabbriche, dando una straordinaria manifestazione di coraggio e di vitalità agli autocrati locali. Vale la pena riprendere, ancora una volta la memoria di Carlo Mussa Ivaldi che proprio su questo aspetto, peculiare della realtà torinese, nel 1955, nel primo decennale della liberazione, scrisse: “Gli scioperi non avvennero né a caso né all’improvviso: per quanto si trattasse di eventi intimamente connaturati con la volontà popolare, o ognuno di essi presuppose un lungo pericoloso e paziente lavoro organizzativo, svolto in condizioni tali che oggi ci riesce persino difficile ricordare quanto fossero dure, difficili e rischiose. Anche qui, centinaia di nomi gloriosi stanno ad indicare il “costo” elevatissimo di questi eventi che hanno pertanto un altissimo valore storico, perché segnarono veramente la direzione della volontà popolare e costituirono la più coraggiosa e significativa risposta popolare alle rappresaglie fasciste”.

Contestualmente a questi grandi fenomeni di massa, non possiamo scordarci di quella che fu una quotidiana, continua ed invisibile opera di sabotaggio dell’industria di guerra nemica. Un’opera fatta di continui e intelligenti accorgimenti per far sì che il lavoro ordinario quotidiano in fabbrica avvenisse e si svolgesse senza intralci apparenti, ma in definitiva mancasse sempre qualcosa di essenziale nella produzione, di modo che il lavoro eseguito risultasse inutile o quasi inutile. Non mi oppongo ad un ordine, ma lo eseguo parzialmente e in modo tale da non raggiungere l’obiettivo e dover ricominciare ogni volta da capo. Una tecnica, questa, che permette di raggiungere in termini di tempi e di produttività (tempi lunghi e produttività scarsa) obiettivi straordinari, tali da far impazzire i responsabili di stabilimento che non riuscivano a trovare soluzioni per bloccare o ridurre tale fenomeno di boicottaggio latente e permanente.

Nell’ambito di una rivisitazione delle tecniche utilizzate dai resistenti nella lotta armata di quegli ultimi mesi della guerra civile, bisogna ricordare l’importante introduzione dello scambio di prigionieri, che presupponeva la necessità di rapire o sequestrare ufficiali o militi delle varie polizie per poi addivenire ad una negoziazione per ottenere la liberazione di patrioti caduti in mano nemica. Nelle ricostruzioni operate dai protagonisti di quel drammatico periodo della storia della nostra città, vi è una sostanziale condivisione su un protocollo operativo che veniva adottato dai resistenti. Vale la pena tracciarne una breve sintesi per renderci consapevoli di come operassero i comandi partigiani nella gestione delle azioni militari in un grande centro come Torino.

La fase uno era costituita dalla raccolta delle informazioni e dalla redazione di un piano operativo che indicasse gli obiettivi e le varie opzioni di percorso per raggiungerli. Condiviso il piano, si individuava la formazione partigiana esterna alla città che avesse una o più basi nel sito cittadino dove si intendeva realizzare l’attentato. Nelle basi partigiane clandestine e mai scoperte dal nemico, si ritrovavano dei cittadini che avevano fatto un’esperienza in montagna, in qualche brigata partigiana e si erano poi candidati a svolgere questo tipo di operazioni molto rischiose in cui era fondamentale poter contare su soggetti che avessero già avuto specifiche esperienze anche di uso delle armi. Sempre nelle basi cittadine delle brigate partigiane operanti all’esterno di Torino, si trovavano materiali adatti alle varie intraprese programmate, tipo esplosivo, micia lenta e rapida, detonatori, armi automatiche: insomma un magazzino di attrezzature varie utili per poter realizzare l’operazione militare condivisa.

Ogni azione avveniva attraverso l’utilizzo di una pattuglia di sabotatori potentemente armata di armi automatiche e con il carico di esplosivo confezionato nella quantità voluta. La squadra penetrava in città, piazzava le mine, azionava i detonatori a tempo e si ritirava prontamente seguendo un itinerario di sicurezza pre-individuato. A volte si distraeva il nemico, attuando le cosiddette azioni diversive che ingannavano i responsabili delle polizie fasciste. È tragicamente affascinante il ricordo del comandante Mussa Ivaldi delle ore che precedevano l’azione: “Mi chiedono spesso se avessimo paura: certo che ce l’avevamo se no saremmo stati dei pazzi incoscienti. Era importante, nel contempo, che il comandante, soprattutto nelle ore di vigilia, condividesse con i suoi ragazzi, meticolosamente ogni passaggio dell’azione cercando di limitare al massimo i rischi degli imprevisti. Bisognava, nella spinosità del momento, rassicurare i partecipanti all’impresa che tutto era stato pianificato al meglio e che se ciascuno di noi avesse compiuto il suo dovere come convenuto, l’operazione sarebbe riuscita, senza incidenti, riportando a casa la pelle”.

La buona riuscita di queste azioni militari costrinse i fascisti a incrementare il numero delle pattuglie di ronda, a volte dotate anche di mezzi corazzati, il tutto schierando molti più uomini in città e quindi distogliendoli dalle attività militari in provincia con ovvio vantaggio delle brigate partigiane operanti nella periferia. Non dimentichiamoci che Torino era presidiata da ben 16 diverse polizie: “Fortunatamente ciascuna di esse agisce in modo autonomo, non fidandosi una delle altre. La loro scarsa efficienza e la loro rivalità favorirà la stessa sopravvivenza di molti dei resistenti” scriveva Ennio Pistoi, uno dei protagonisti di quelle giornate.

Un ruolo importante nella programmazione di queste azioni lo svolsero anche gli ufficiali di collegamento degli alleati sia in termini di scelta degli obiettivi (era inutile bombardare una zona già oggetto di un sabotaggio) sia di supporto del materiale militare necessario per l’azione. Fu deciso che le squadre impegnate in queste attività di sabotaggio nel centro cittadino usassero la cosiddetta divisa partigiana con un duplice scopo: dimostrare alla popolazione civile e a tutti gli operai delle fabbriche che le brigate partigiane erano ben presenti in città e che quindi valeva la pena supportarle per accelerare i tempi dello scontro finale.

Nello stesso tempo, serviva a indebolire la forza e la determinazione del nemico che si vedeva attaccato proprio all’interno delle sue caserme, dei luoghi presidiati, delle fabbriche controllate. Continuare a constatare che c’erano delle falle nella sicurezza, faceva venire meno la sicumera dei nazifascisti sempre più preoccupati, per non dire terrorizzati, dei blitz dei resistenti. Quale fu il costo umano di questo enorme sforzo operato nella nostra città? Le squadre dei sabotatori furono falcidiate e secondo alcune statistiche ebbero perdite superiori al 70% dei loro effettivi.

I miei appunti su quell’indimenticabile pomeriggio passato con il comandante “Carletto” si concludevano con questo forte auspicio che Mussa Ivaldi volle trasferirmi con grande determinazione ed emozione: “La nostra città – mi disse con voce accorata, guardandomi fisso negli occhi – deve ricordare questi fatti della sua storia: queste azioni dei suoi figli migliori, che hanno contribuito alla sua gloria e alla sua salvezza, assieme a quella della patria; azioni che si perdono nel ricordo dei più in qualche misteriosa esplosione o sparatoria in quelle notti desolate. Quello che tutti sanno e chiaramente ricordano è che è stato, in un certo senso, il coronamento della resistenza cittadina, furono le giornate insurrezionali, che precedettero e concretarono la liberazione della città”. Cosa aggiungere a questa sintesi che inquadra in maniera magistrale il ruolo fondamentale avuto da quei torinesi che decisero di fare quella scelta anche a costo, come nella maggior parte dei casi, della propria vita.

Riccardo Rossotto

Riccardo Rossotto

"Per chi non mi conoscesse, sono un "animale italiano", avvocato, ex giornalista, appassionato di storia e soprattutto curioso del mondo". Riccardo Rossotto è il presidente dell'Editrice L'Incontro srl

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