La Storia insegna che la bassa qualità della leadership politica, la debolezza istituzionale e il decadimento delle classi medie inducono il corpo elettorale a sotterrare la voglia di partecipazione oppure a desiderare leader forti che diano solidità allo Stato e sicurezza ai cittadini, anche a scapito del rispetto dei diritti individuali e della separazione dei poteri. È ciò che sta succedendo in Ungheria, Polonia, Turchia, ma anche negli Stati Uniti e in Germania e, perché no, anche in Italia.
Ma c’è anche un altro elemento inquietante che caratterizza il clima politico in ogni angolo del mondo: uno scoraggiante e pericoloso degrado del linguaggio della politica. Chi più chi meno, tutti fanno a gara ad alzare i toni, a rendere il messaggio più diretto e “forte”, condendolo con attacchi personali e insulti all’avversario politico, trattato come nemico. Sembra quasi che l’obiettivo sia allertare l’opinione pubblica più che rassicurarla. Forse perché non c’è sentimento più forte e duraturo della paura.
In un saggio del 1946 – “Politics and the English Language”, disponibile anche in italiano – George Orwell sostiene che il degrado del linguaggio da parte di chi “lavora con le parole – politici, giornalisti, ecc. – costituisce un concreto rischio per la tenuta delle nostre democrazie e ricorda che la gabbia che provoca la perdita della libertà è costruita di parole e, una volta chiusa, quella gabbia non si apre facilmente. Parole che fanno rizzare i capelli per la loro drammatica attualità. Dello stesso parere si è dichiarato un anno fa George Shultz, capo del Partito socialdemocratico tedesco (SPD), denunciando la minaccia alla libertà e alla democrazia rappresentata dal linguaggio politico brutale.
A nulla vale rifugiarsi nella convinzione che le cose sono andate sempre così. Ci sono numerosi esempi di involgarimento del linguaggio politico. Uno di questi, che ha fatto storia, vide come protagonista Antonio Salandra, celebre statista nato a Troia, nel foggiano, diventato presidente del Consiglio dei Ministri nel triennio 1914-1916. Di lui si narra che alcuni parlamentari l’avessero apostrofato in modo equivoco chiamandolo «l’illustre figlio di Troia», ottenendo in risposta parole tutt’altro che equivoche: «ciò che per me fu patria, per voi è madre!». Il problema è che tali episodi venivano un tempo bollati dall’opinione e dalla stampa, mentre oggi scatenano orde di fans sui social e la stampa, con poche eccezioni, poco o nulla fa per condannarle.
Lo abbiamo visto nelle ultime, desolanti, campagne elettorali, in Italia, in Europa e negli Stati Uniti: una rincorsa a slogan, insulti personali e falsità camuffate da promesse mirabolanti, contando sulla memoria corta degli elettori. La spiegazione è che il linguaggio diretto e personalistico, condito anche da insulti e hate speech (parole d’odio), la gestualità, l’alzare la voce e il fare ricorso a esempi semplici, a torto o a ragione, è un modo per farsi percepire più vicini alla gente. Il risultato è che le agorà della comunicazione, con la loro spettacolarizzazione, hanno ridotto la politica da luogo di confronto tra idee, anche ruvido e aspro, in uno scontro tra tifoserie attaccate in maniera irrazionale ai colori delle maglie, per usare un gergo calcistico.
Il degrado del linguaggio della politica italiana è un fenomeno che non può essere ignorato se si vuole comprendere appieno la crisi culturale e istituzionale che il Paese sta vivendo. Le ragioni di questo declino sono molteplici e affondano le radici sia in dinamiche interne al sistema politico sia in trasformazioni più ampie della società contemporanea.
I social media hanno la responsabilità di amplificare il degrado linguistico. Questi strumenti, pur avendo il potenziale di avvicinare i cittadini alle istituzioni, spesso incentivano un linguaggio semplificato, aggressivo e polarizzante. La brevitas richiesta da piattaforme come Twitter o TikTok spinge i politici a sacrificare la complessità e la profondità del discorso in favore di slogan accattivanti e frasi a effetto, che mirano più a suscitare emozioni immediate che a promuovere una riflessione consapevole. In cerca di audience, i talk show politici tendono a premiare i protagonisti più polemici e a ridurre gli spazi per un confronto ragionato. Questo circolo vizioso alimenta ulteriormente il degrado del linguaggio politico, poiché i politici si vedono incentivati ad adottare stili comunicativi sempre più estremi.
Anche la crescente disaffezione dei cittadini verso la politica tradizionale contribuisce, per quanto indirettamente, al degrado del linguaggio. In un contesto in cui i partiti storici hanno perso gran parte della loro credibilità, molti politici scelgono di adottare un linguaggio populista per recuperare consenso. Questo linguaggio si caratterizza per una semplificazione eccessiva dei problemi, l’uso di metafore bellicose e la delegittimazione sistematica degli avversari. Il risultato è un clima di conflittualità permanente che indebolisce il dialogo democratico.
Non meno importante è la crisi culturale che attraversa la società italiana nel suo complesso. La perdita di riferimenti culturali comuni e il declino della lettura come pratica diffusa hanno avuto un impatto negativo anche sul linguaggio politico, che riflette e amplifica le tendenze alla superficialità e alla frammentazione. Un tempo, i discorsi politici erano costruiti con cura, ispirandosi a modelli letterari e retorici elevati; oggi, invece, prevalgono frasi spezzate, neologismi di dubbio gusto e un uso improprio dei termini tecnici.
Infine, non si può ignorare il ruolo della formazione. La retorica e la capacità di argomentare non sono più considerate competenze fondamentali per chi si affaccia alla politica, sostituite da una maggiore attenzione all’immagine e alla capacità di “bucare” lo schermo. Questa mancanza di preparazione si riflette inevitabilmente nella qualità del linguaggio che dal politicamente corretto, pieno di eufemismi e ambiguità, sta passando alla brutalità più assoluta per galvanizzare la volontà degli elettori. Il rischio è che la violenza verbale si traduca in violenza fisica e che la fiducia dei cittadini nel sistema democratico continui a deteriorarsi. Oggi molti coltivano l’illusione che sbraitare di fronte allo specchio sia un modo per avvicinarsi alla verità. Ma la buona retorica esclude la maleducazione e ama il silenzio: quello che consente agli altri di ascoltare.
In conclusione, il degrado del linguaggio politico italiano è un fenomeno complesso e multidimensionale, che richiede un intervento su più fronti: dalla promozione di una cultura politica più inclusiva e rispettosa, alla riforma dei meccanismi di comunicazione istituzionale, fino a un rinnovato impegno per l’educazione civica e culturale. Solo attraverso un’azione coordinata si potrà restituire dignità e valore al discorso pubblico, indispensabile per il buon funzionamento della democrazia.
Il vandalismo oratorio, a volte ammantato di satira umoristica, è stato anticipato da Beppe Grillo, quando ha lanciato il Vaffanculo-day. Altri da allora hanno seguito le sue orme. Alcuni letteralmente, come un giovane e inesperto sindaco del Partito Popolare spagnolo, a capo di una città vicino a Madrid che, dopo aver negato la parola a un rappresentante dell’opposizione, ha chiuso il consiglio comunale con un plateale: “La seduta è aggiornata, andate a farvi fottere!” Ciò evidenzia come non siano solo i populisti ad avere degradato la lingua in nome del loro falso amore per la gente comune. La malattia del linguaggio scurrile, violento e maleducato ha contagiato anche i leader degli ex partiti istituzionali.
Molti secoli fa, Platone metteva in guardia contro chi abusava e manipolava la retorica con l’unico scopo «di convincere gli altri con le proprie parole». Non dimentichiamolo.
Mario Grasso