E’ già un anno che l’Avv. Bruno Segre è mancato al nostro affetto, alle conferenze alle quali ha partecipato sino all’ultimo, così come ai colloqui che ha avuto la cortesia di concederci, a partire dal 2018, data nella quale L’INCONTRO, la rivista da lui fondata e diretta per 70 anni, ha cessato le pubblicazioni in forma cartacea. Rivista che è rinata, come novella fenice, in versione “on line”, grazie all’intuizione ed alla volontà di un gruppo di “coraggiosi”, capitanati dall’Avv. Rossotto. Il decesso di Segre è avvenuto il 27 gennaio 2024 ed un personaggio che aveva dedicato tutta la sua vita a battersi per i diritti e per mantenere vivo il ricordo di tempi bui, nei quali la stessa vita delle persone era negletta e vilipesa, ha così unito il suo personale ricordo a quello, ben più significativo, di ciò che viene celebrato il 27 gennaio di ogni anno, in occasione del Giorno della Memoria.
Il risultato di questa casualità è che si sono legati in modo duraturo, anche per il futuro, sia il ricordo di un uomo straordinario, per tempra, carattere ed intelligenza, nella sua duplice attività di avvocato e di giornalista, sia il necessario, ancor più oggi, ricordo delle atrocità commesse durante la seconda guerra mondiale pur di ottenere una sistematica eliminazione, in tutta Europa, degli appartenenti al popolo ebraico e ad altre minoranze. Ed è proprio grazie all’insegnamento di Bruno Segre, che lo ha sempre affermato in tutte le occasioni pubbliche ed anche su L’INCONTRO a partire dal 1949, che non deve assolutamente prevalere tra di noi il ritornello autoassolutorio: “è stata tutta colpa dei nazisti”.
Una parte degli italiani è stata anzi il mezzo, più o meno volontario e cosciente, della deportazione dal nostro Paese, per essere poi sterminati in Germania o Polonia, di intere famiglie, anziani e bambini compresi. Segre aveva vissuto in prima persona quei tempi nei quali era sufficiente l’origine razziale per decretare l’arresto e poi il viaggio senza ritorno ed ha ben descritto questa situazione di angosciosa attesa nel suo volume “Quelli di via Asti”, ove sorgeva in Torino una caserma trasformata in prigione e dove i detenuti erano in balia di carcerieri della Repubblica Sociale Italiana che, per viltà o denaro, li consegnavano ai nazisti, che, dopo aver loro apposto sulla schiena di una casacca la lettera J, li facevano partire per un viaggio senza ritorno.
Lo stesso Carlo Greppi, storico di valore, nella prefazione/introduzione al volume, afferma che “il testo di Segre ci presenta un affascinante mosaico della macchina repubblichina al servizio dell’occupante tedesco, dimostrando il ruolo ancillare di Salò”. Chi poi ne è uscito, assai fortunosamente, come Segre, non ha più potuto, per tutta la vita, non considerare che erano stati propri “Quelli di via Asti”, cioè quegli “italiani, brava gente” a tradire i loro concittadini consegnandoli, come animali, ai loro macellai.
Alessandro Re