Il 23 gennaio u.s. è stata inaugurata a Torino, a Palazzo Madama, una interessante mostra dedicata a Primo Levi, lo scrittore che ha dedicato la sua vita, dopo il ritorno dai lager, a ricordare a tutti noi l’orrore di quei luoghi di sterminio, di fame, malattie e dolore. I suoi libri, tradotti in tutto il mondo, sono ormai dei classici: da “Se questo è un uomo” a “La tregua” a “I sommersi e i salvati”, oltre ad altre opere.

La novità di questa mostra consiste nel rivelarci il Primo Levi scrittore di lettere, in particolare con una serie di cittadini tedeschi con i quali egli fu in contatto per oltre venti anni. Dopo la traduzione in tedesco, nel 1961, di “Se questo è un uomo”, egli inizia una fitta corrispondenza dapprima con Heinz Riedt, il suo traduttore e poi con tutta una serie di lettori e lettrici con i quali Levi intrattiene un colloquio epistolare: vi sono semplici cittadini, intellettuali, ex-deportati e, addirittura, alcuni ex-nazisti che ad Auschwitz stavano “dall’altra parte”.

Fu proprio questa traduzione, come ben ricorda Domenico Scarpa, nella presentazione della mostra in un articolo pubblicato su La Lettura del Corriere della Sera del 19 gennaio u.s., a far scoccare “l’ora del colloquio” tra Levi e coloro che fin dal primo momento aveva desiderato raggiungere con il suo primo libro, appunto “Se questo è un uomo”, pubblicato nella sola Germania Occidentale: “I tedeschi, quelli della sua generazione che nella quasi totalità avevano sostenuto il nazismo, e i più giovani che non avevano colpe ma che forse non sapevano”.

Il tema dei colloqui epistolari è doppiamente sorprendente. Da un lato perché Levi è stato uno dei pochissimi che ha voluto, sin dal suo ritorno in Italia, diffondere la conoscenza diretta, vissuta dall’interno, di che cosa fosse la persecuzione contro gli ebrei e altre minoranze, dalla deportazione sui vagoni come bestie, sino alla eliminazione di vecchi e bambini subito dopo l’arrivo nei lager; dal lavoro, per quelli risparmiati, come schiavi, sino alla morte.

Infatti, nel dopoguerra, come ricorda ancora correttamente Scarpa, “si fronteggiano due blocchi reciprocamente ostili in campo politico, economico e sociale e non vi è spazio per ricordare il Lager, né tantomeno per indagarne le cause”. Dall’altro lato Levi, che già prima e durante la guerra aveva compreso l’importanza dell’Europa e della necessità che in questo ambito venissero ricompresi anche i paesi orientali e la stessa Russia, vive sulla propria pelle, ancora una volta, la crisi dell’immediato dopoguerra che ha poi determinato per quasi 50 anni la “guerra fredda”.

I due precedenti alleati contro la Germania nazista, gli Stati Uniti da una parte e la Russia dall’altra, si dividono le rispettive zone di influenza e il risultato è “un’ Europa ed una Germania spaccate in due”. Con grande lucidità Levi scriveva già il 26 novembre 1945: “La guerra è finita ma non c’è ancora la pace”. E’ un’Europa, come ancora osserva con esattezza Scarpa, “che sarebbe da ricostruire, ma che riparte divisa”. Solo la lungimiranza, nonostante tutto, di alcuni dei politici di allora, ora per lo più dimenticati, evitò il disastro nucleare.

Purtroppo Levi non potè vedere la fine di questa divisione materiale e ideologica, determinata nel 1989 dal crollo del Muro di Berlino, essendo venuto a mancare nel 1987. Il suo messaggio è comunque ancor oggi tra noi, a iniziare da una incredibile (nel senso che non è dato sapere come possa essere giunta a destinazione “attraverso mezza Europa in armi”) lettera che Levi ebbe a inviare all’avv. Bianca Guidetti Serra a Torino, datata Katowice 27 aprile 1945, appartenente all’Archivio privato Primo Levi e ora resa pubblica per la prima volta nella mostra.

Alessandro Re

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