Sono tanti gli esempi davanti ai nostri occhi, più o meno distratti, che ci illustrano la potenza e quasi l’impunità dei monopolisti del Gafam. Soltanto nel 2024, un anno importante per l’auspicato inizio di un confronto giudiziario con i nuovi potenti del mondo, annoveriamo i seguenti processi pendenti:
– Abuso di posizione dominante: nel giugno dello scorso anno la Commissione Europea ha completato l’istruttoria contro Apple, prospettando una sanzione “salatissima” per la violazione del Digital Markets Act, il Regolamento europeo volto proprio a contrastare anche questo tipo di abusi concorrenziali. Dal marzo dello scorso anno tutti i Big Tech avrebbero dovuto conformarsi alle nuove regole comunitarie, entrati in vigore nel 2023.
Il nodo dell’illecito posto in essere dalla società di Copertino riguarda il mancato rispetto delle norme sulla distribuzione delle Apps, le applicazioni di iPhone e iPad. Anche Google è stata considerata un’impresa che ha agito come monopolista al fine di conservare il suo monopolio violando così le norme dello Sherman Act. Con una sentenza di 276 pagine, Google è stata dichiarata colpevole di aver usato metodi illegali per imporre in tutto il mondo il suo motore di ricerca oggi installato nel 95% degli smartphone del mondo.
– Pedopornografia: negli Stati Uniti le Big Tech sono accusate di non voler cancellare dai loro siti e dai loro contenuti le immagini pedopornografiche, nonostante gli impegni assunti in merito.
– Il giusto compenso agli editori: in questo caso il contenzioso si è chiuso con una transazione. I giganti digitali hanno accettato la mediazione su un “giusto compenso” da versare agli editori sui contenuti da loro utilizzati.
– Evasione fiscale: la Corte di Giustizia europea ha confermato e reso definitiva una maxi sanzione ad Apple per tasse arretrate e non pagate. Apple ha dovuto pagare 13 miliardi all’Irlanda per aver goduto di sconti fiscali illegittimi.
– Pubblicità per i minori: sempre nel secondo semestre del 2024 si è registrata un’altra accusa pesante contro Google e Meta: è stato smascherato un accordo segreto a danno degli adolescenti proprio da parte dei manager dei due colossi del Big Tech. L’intesa prevedeva di collaborare ad un progetto di marketing indirizzando ai ragazzi tra i 13 e i 17 anni una campagna pubblicitaria su YouTube per spingerli su Instagram eludendo le regole di Google che vietano il marketing personalizzato ai minorenni.
Insomma, una giostra di procedimenti che hanno raggiunto in molti Stati, diversi gradi di giudizio. In Europa con un atteggiamento della magistratura più rigido, in America più condizionati dalle scelte politiche dell’amministrazione vigente. Da registrare ancora che contro il rischio concreto che questa concentrazione di potere danneggi la competizione, i consumatori e la stessa innovazione, le Autorità antitrust delle due sponde dell’Atlantico hanno deciso di iniziare un lavoro di coordinamento e condivisione delle loro attività ispettive di monitoraggio: “Siamo impegnati a usare i nostri poteri in modo appropriato per arginare condotte illecite” ha detto il Commissario UE Vestager.
Adesso, il vero interrogativo è il seguente: con Trump Presidente come andrà a finire questo scontro? Certo, la sfilata dei potenti del Gafam a Mar-A-Lago, in Florida, nella proprietà privata di Trump, tutti intenti a “baciare le pile” (come lo ha brillantemente definito Mario Platero) al nuovo Presidente, non ci consente grandi speranze. Trump è passato da un rapporto conflittuale con i Big Tech di Silicon Valley ad una fase negoziale vera e propria, quella attuale, i cui contorni sono per ora sconosciuti anche se intuibili.
Come evitare il break-up, “lo spezzatino”, invocato da alcuni magistrati americani ma anche da molti consumatori del pianeta? Attraverso quali compromessi si potrà evitare lo smembramento dei cinque colossi, accusati ormai nelle aule di più tribunali, di condotte monopoliste illecite, di abuso di posizione dominante, eccetera eccetera. Certo, sul tavolo del Presidente americano, c’è un aspetto di questo dossier molto delicato e che tocca la stessa sicurezza nazionale degli Stati Uniti. In un mondo che si sta incamminando verso una nuova, per certi versi c’è quasi da sperarlo, edizione della Guerra Fredda, questa volta tra l’America e la Cina, per ora concretizzatasi soltanto sul piano economico e politico, un eventuale spezzatino dei cinque membri del Gafam, potrebbe favorire il predominio dei loro concorrenti cinesi, pregiudicando così la supremazia americana proprio alla vigilia del boom della intelligenza artificiale?
Questo è il perimetro del gioco d’azzardo in cui si trova, a mio avviso assolutamente a suo agio, Donald Trump, giocatore nato, grande negoziatore e uomo di business.
Bene, se la situazione odierna è questa, sorge spontanea un’altra domanda: ma come si è arrivati a questo scenario in cui cinque gruppi societari hanno ormai in mano praticamente tutto il mercato digitale dell’Occidente, i nostri dati personali, tutte le nuove, impressionanti tecnologie in corso di realizzazione? Come mai nessuno si è accorto di quello che stava succedendo attraverso una concentrazione di potere economico e tecnologico e ormai politico, mai vista prima?
Per capirlo, facciamo un passo indietro e rivolgiamo il nastro fino a trent’anni fa, al 1994. In quell’anno i protagonisti della Borsa americana nei listini tecnologici erano aziende come Oracle, Cisco, Intel, IBM. Valevano in media 30-40 miliardi di dollari, meno di un centesimo delle valutazioni record raggiunte da chi oggi ha preso il loro posto come società più capitalizzate. La svolta che ha cambiato tutto è avvenuta nel 2007 con l’avvento degli smartphone e di Internet mobile, come tecnologia di consumo di massa.
Apple ha dimostrato che era possibile creare e vendere un prodotto senza tastiera, aprendo Internet a 5 miliardi di abitanti del nostro pianeta e vendendo 5 miliardi di mobile smartphone: “La rivoluzione tecnologica è arrivata grazie agli smartphone non ai computer – ha dichiarato Paolo Cellini, professore dell’università Louis di Roma – e i suoi protagonisti principali sono stati i consumatori finali, quelli che di improvviso hanno avuto accesso a Internet ovunque si trovassero, diventando insieme consumatori e produttori di contenuti online”. Già tre anni dopo, nel 2010, Google, Facebook, Amazon, Salesforce e Netflix erano tra le società che valevano di più nei listini tecnologici con valutazioni intorno ai 100 miliardi di dollari. Apple ha guidato stabilmente la classifica toccando, nel 2014, i 500 miliardi di dollari di valutazione.
La tesi dei nuovi capitalisti di questo III millennio è che nella tecnologia “chi vince prende tutto”, per questo ci sono pochi colossi per ogni settore. Non c’è spazio per i competitor. Ciò è dimostrato anche dalla battaglia che c’è stata sia per il browser: uno scontro vinto da Google; sia per il commercio online, vinto da Amazon. La pandemia è stata poi un acceleratore incredibile per il business di queste aziende che hanno in tal modo consolidato il loro primato. Si è moltiplicato il tempo speso in Rete e nei dati: il boom è stato conseguente, imprevisto e clamoroso. A
desso è in atto un’ulteriore tappa nel processo di implementazione: la nuova rivoluzione tecnologica dell’intelligenza artificiale. Tutta quella massa di dati raccolti e prodotti costituisce oggi materia prima per i modelli linguistici di grandi dimensioni. Lo dimostra il caso di Nvidia che è letteralmente esplosa al Nasdaq, dov’è arrivata a valere 3500 miliardi di dollari proprio in funzione dell’attesa dei risultati della nuova rivoluzione tecnologica della AI.
Teniamo in conto, inquadrando le ragioni e le modalità dello straordinario successo ottenuto dai membri del Gafam, che l’America è stato il primo paese del mondo, quasi 140 anni fa, nel 1890, a dotarsi di una norma contro i Monopoli e le illecite concentrazioni di potere. Eppure, nulla: nessuno ha voluto contrastare davvero l’esplosione dei Big Tech fino allo scorso anno, come dicevamo prima. Può essere utile quindi ripercorrere la storia dello Sherman Act, il benchmark internazionale, ancora oggi, delle discipline contro i potentati economici.
La genesi dello Sherman Act
Due sono i personaggi chiave nella storia della nascita del diritto della concorrenza: John D. Rockefeller e John Sherman. Il primo è stato l’ideatore ed il creatore, il vero e proprio deus ex machina, della prima forma evoluta di “cartello” al mondo; il secondo, senatore degli Stati Uniti, è stato l’ideatore e il redattore della legge americana contro le restrizioni nel commercio, una legge ancora oggi vigente.
Rockefeller e Sherman sono due personaggi differenti, ma al contempo molto simili. Rockefeller è uno dei primi capitalisti finanziari, membro di una delle famiglie più potenti degli Stati Uniti, newyorkese, è il simbolo degli WASP della costa est, nonché di una categoria di capitalisti d’assalto conosciuti al tempo come “Robber Barons”, che per mantenere il senso in italiano potrebbe essere tradotto come i “Baroni Ladroni”. Il Senatore Sherman è un politico per vocazione, uno dei candidati repubblicani alla presidenza del paese nel 1884, nonché fratello di un eroe della guerra di secessione. Entrambi sono carismatici e determinati, dei veri e propri leader.
Negli Stati Uniti, negli anni ‘ 60 del secolo scorso, c’era un fiorire di accordi fra imprese per limitare i danni e per incrementare i profitti. John D. Rockefeller nel 1867 escogitò ed applicò un sistema quasi infallibile avvalendosi di un antichissimo istituto anglosassone il trust, che consiste nell’assegnare ad un fiduciario i propri diritti. In brevissimo tempo il sistema ebbe successo ed all’inizio del 1888, anno di elezioni presidenziali negli Stati Uniti, i trust dominavano il mercato del petrolio, dei trasporti ferroviari, dello zucchero, del grano e di molte altre materie prime, arricchendo a tal punto i magnati dell’industria da renderli più potenti delle istituzioni politiche.
Tuttavia, come spesso accade, non tutti i cittadini e i concorrenti potevano essere entusiasti della situazione di mercato che si era venuta a creare, o meglio, come sottolineano alcuni commentatori dell’epoca, la sfacciata ricchezza accumulata da Rockefeller e dalla borghesia agricola non poteva che essere il risultato di un progressivo impoverimento della middle class americana.
Durante la campagna presidenziale del 1888 sia i democratici sia i repubblicani inclusero nel proprio programma misure contro il trust. È proprio in questo periodo che viene coniato il termine Anti-trust, ancora oggi in uso. Il senatore Sherman è, ancora oggi, riconosciuto come l’alfiere ed il massimo sponsor della legge contro i trust e qualsiasi altra forma di monopolio. La legge proposta da Sherman, non era altro che una razionalizzazione di concetti già presenti nella Common Law, con la fondamentale integrazione di sanzioni non solo pecuniarie e penali, ma anche economico-strutturali.
Per Sherman non era solo una questione economica, ma era una questione di democrazia. La verità è che l’obiettivo della norma era ed è quello non già come affermano alcuni economisti della scuola di Chicago, mirato al perseguimento dell’efficienza economica, ma a porre un limite al potere dei trust, o meglio dei capitalisti, che cominciavano ad assumere un potere politico come conseguenza del proprio potere economico, potendo così condizionare l’andamento del Paese a prescindere dalle volontà della classe politica tradizionale.
Quindi, la prima conclusione che si può tirare alla luce della genesi dello Sherman Act è che la norma c’era e aveva già dato ottime prove di efficacia e di esecutività. Nonostante ciò, non la si azionò nell’ultimo trentennio con la volontà di andare fino in fondo. Le lobby del Congresso americano ma anche del Parlamento europeo, fecero, da parte loro, egregiamente il loro mestiere di contrasto.
Ora, trent’anni dopo, è necessaria una svolta. Uno scarto nella lotta contro i monopoli. Non tanto e non solo economica, con sanzioni quindi anche milionarie che hanno fatto solo “il solletico” ai bilanci miliardari dei membri del Gafam, ma con strumenti proprio tipo il break-up, lo spacchettamento obbligatorio dei potentati illeciti. È da quarant’anni che in America non si registrano interventi così incisivi contro i monopoli: l’ultimo risale al 1984 quando il colosso della Tlc At&t fu diviso in sette compagnie regionali (le “baby Bells”). Ci fu un altro tentativo nel 1999 quando il governo americano sconfisse in tribunale Microsoft accusata di abuso di posizione dominante. In appello la società fondata da Bill Gates riuscì ad evitare lo spezzatino.
E adesso? Cosa può succedere alla luce dei vari procedimenti pendenti negli Stati Uniti e nel mondo? Nell’immediato, poco o nulla. Google proverà in tutti modi ad allungare i tempi della decisione giudiziaria, frapponendo appelli e istanze dilatorie. Da parte sua il giudice Mehta, l’estensore della decisione che ha accertato l’illecito, cercherà invece di accelerare i tempi: ha già fissato una serie di scadenze processuali proprio nell’ottica di arrivare quanto prima ad una decisione finale.
Sicuramente vieterà gli accordi di esclusiva stipulati fin qui da Google che nel solo 2021 ha versato 26 miliardi di dollari ad Apple, LG, Samsung e a diverse compagnie telefoniche come At&t a Verizon, per rendere il suo motore di ricerca l’”opzione di default” che appare all’utente quando accende il suo smartphone. Quindi la prescelta! La sentenza di accertamento degli illeciti, a parere di autorevoli giuristi americani, difficilmente verrà capovolta in appello. Costituirà in ogni caso un monito, anche per gli altri grandi gruppi che da anni hanno adottato condotte monopolistiche approfittando della “distrazione” della politica e della magistratura. Certo, dipenderà anche dall’atteggiamento della Casa Bianca in ordine ai rapporti e ai destini dei membri del Gafam.
Il ruolo di Elon Musk
Non si può chiudere questa analisi senza dedicare qualche minuto all’uomo più ricco del mondo, assurto alle cronache mondiali per i suoi successi imprenditoriali in vari settori, sempre innovativi, e per aver fatto, soprattutto, una scelta di campo politica ben prima delle elezioni del novembre scorso, a favore proprio di Donald Trump. Stiamo parlando ovviamente di Elon Musk, il bizzarro multimiliardario che ormai è di casa alla corte del Presidente degli Stati Uniti. Molti di noi, confondendo la speranza con la realtà, a mio avviso, fanno pronostici relativi ai probabilissimi scontri fra i due personaggi dotati entrambi di una forte personalità.
Altri si limitano a sottolineare la drammatica concentrazione di potere politico ed economico che risiede proprio nelle teste, nei cuori e nei portafogli di Donald e di Elon. Al di là dei cinque membri del Gafam, Musk costituisce la variabile imprevedibile di un modello capitalistico che si fonda su una combinazione esplosiva tra i poteri di una Repubblica presidenziale come quella americana e la potenza di fuoco economica e tecnologica di un impero detenuto da un imprenditore che ne determina le strategie a suo piacimento. Alcuni amici americani mi dicono di non sottovalutare l’importanza anche di un altro famoso ma meno mediatico imprenditore del mondo Tech: mi riferisco a Peter Thiel, il primo a credere in Facebook e il primo a partecipare al progetto di costruzione di PayPal.
Thiel, da buon imprenditore visionario, aveva già creduto in Donald Trump nel 2016, finanziando la sua prima campagna. Cambiò poi idea, deluso delle decisioni assunte dal Presidente da lui finanziato. Oggi insieme a Musk rappresenta il più ascoltato “consulente” di Trump, alla Casa Bianca, in materia di politica industriale. Forse ancora più pericoloso di Musk, perché sa stare nell’ombra.
Un suggerimento, infine, per gli appassionati della materia: non si può non leggere subito il saggio “Come distruggere il capitalismo della sorveglianza” (Editore Mimesis) scritto da Cory Doctorow, un esperto e studioso del settore che con grande competenza giuridica e tecnica svela i rischi del potentato economico dei Gafam e della loro possibile contaminazione sulla politica americana.
Riccardo Rossotto