Partiamo da un dato oggettivo: la notizia improvvisa e, per certi versi, sorprendente della fuga di Assad da Damasco ci ha lasciato interdetti. I ribelli hanno conquistato la capitale praticamente senza colpo ferire, un po’ come i talebani a Kabul, nell’agosto 2021 dopo l’evacuazione degli americani e degli occidentali Dunque, ci siamo detti, finalmente è stato cacciato un tiranno crudele e sanguinario, responsabile di aver massacrato e torturato decine di migliaia di suoi concittadini per conservare il potere. In sintesi, apparentemente una buona notizia, in un Medioriente costellato di cattive notizie.
Poi, però, ci siamo anche chiesti: ma chi sono i nuovi padroni di Damasco e della Siria? I liberatori agognati, portatori di libertà civili e religiose con obiettivi di carattere pacifico? Oppure, una marea di terroristi e/o ex terroristi, più o meno manovrati da Erdogan, aspirante e candidato a voler ricostruire l’epopea dell’Impero Ottomano; ex terroristi che una volta abbattuto il nemico comune inizieranno a spararsi addosso facendo ripiombare il paese nel caos? I primi segnali sembrano apparire positivi… ma anche a Kabul fu così… e sappiamo come andò a finire!
Proviamo a ragionarci sopra, dopo aver letto ed ascoltato i commenti di numerosi osservatori anche di provenienze politiche e culturali opposte. La Siria è una nazione, come tante nel Medioriente, artificiale, costruita “sulla carta” dai colonialisti occidentali durante la Prima Guerra mondiale. Nacque infatti a seguito dell’accordo Sykes-Picot, tra Francia e Regno Unito nel 1916. Snobbando completamente, come erano soliti fare i colonialisti dell’800, le popolazioni locali, i francesi e gli inglesi ci misero dentro di tutto in quel territorio: una grande maggioranza araba, una rilevante minoranza curda che di arabo non ha nulla anzi ha molte parentele con noi in quanto è una etnia indo-europea e iranica. Inoltre, per completare il quadro, ci inserirono anche dentro ulteriori e diverse religioni, tra cui quella cristiana. Gli stessi alawiti sono teoricamente degli sciiti, anche se in realtà sono dei sincretici, in quanto riconoscono le festività cristiane del Natale e della Pasqua.
In questa babele di diverse culture ed etnie furono le potenze straniere a dettare le strategie del paese fino al secondo dopoguerra. Poi la tirannia degli avi di Assad sospese il problema. Oggi sono tutti contro tutti. Gli autoctoni hanno preso il potere a Damasco e sono arabi e sunniti. Espressioni quindi della maggioranza della popolazione locale. Sono stati però aiutati, finanziati e addestrati dai turchi di Erdogan, con il silenzio-assenso degli americani. Oggi quindi la prima domanda che dobbiamo porci – ci stimola Dario Fabbri, direttore di Domino, una rivista che si occupa esclusivamente di geo-mappe come Limes – è la seguente: come l’attuale governo insediatosi a Damasco gestirà i rapporti con Istanbul? Che grado di autonomia avrà nei confronti di Erdogan?
E veniamo proprio alla strategia del “sultano” di Istanbul. Per i turchi una parte della Siria è praticamente “casa loro”. La grande Turchia non è una idea solo di Erdogan ma anche di una gran parte della popolazione dell’Anatolia. Il “sultano”, come la storia ci insegna, sta replicando una sceneggiatura già vista in situazioni analoghe: di fronte a delle grandi criticità di consenso all’interno del suo paese che sta convivendo con un tasso di inflazione di circa il 60%, che sta massacrando la classe intermedia, Erdogan distrae il malessere interno rievocando la storia e l’epopea del grande Impero Ottomano.
Del diritto dei turchi a progettare di ricostituirlo. In tal modo per ora gestisce una situazione paradossale e contraddittoria: la Turchia è un paese con un’economia disastrata ma un ruolo e un posizionamento internazionale come probabilmente non ha più avuto dai tempi dei califfi agli inizi del secolo scorso. Oggi Erdogan gioca su diversi tavoli, oltraggiando Israele sui media ma poi trafficando con Tel Aviv sottobanco. L’importante per lui è ridare ai turchi l’orgoglio e la sensazione di tornare centrali in quell’area del mondo che considerano “casa loro”. In questo contesto delicato e spinoso, si inserisce anche un ulteriore elemento costituito dalla possibile apertura di un tavolo di trattativa per una tregua tra la Russia e l’Ucraina. Erdogan infatti si propone di giocare un ruolo anche in quella negoziazione, dichiarandosi attualmente legittimato a parlare anche a nome e per conto dei nuovi governanti siriani che, non dimentichiamolo, devono decidere il futuro delle quattro basi militari russe sul loro territorio: basi per ora abbandonate quasi totalmente dal personale militare di Mosca.
La storia ci insegna, proprio a questo proposito, che bisogna stare sempre molto attenti a “fabbricarsi” delle milizie apparentemente amiche. Addestrarle ed armarle contro un certo nemico non vuol dire poi averle sicuramente alleate nel “dopo abbattimento del nemico di turno”. È accaduto in Afghanistan dove nel decennio 1979-1989, i mujaheddin, generosamente finanziati e armati dall’America di Carter prima e di Reagan dopo, con il beneplacito del Pakistan e dell’Arabia Saudita, nell’ottica di contrastare l’invasore sovietico, una volta ottenuto il successo della cacciata dei russi, si sono completamente… dimenticati dei loro “ispiratori e protettori”. Osama bin Laden valorizzò proprio i fiumi di denaro che arrivarono dall’Occidente, per dar vita a quel movimento fondamentalista islamico, denominato Al Qaeda, che ci portò tutti dal ritiro russo dell’Afghanistan alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001.
Di nuovo, oggi a Damasco, il colpo di stato è stato gestito dagli islamisti radicali di Al Jolani. In mezzo, negli ultimi vent’anni, non dimentichiamolo, c’è stata la costituzione dell’Isis, il califfato di al-Baghdadi che sta cercando proprio in questi mesi di rinascere in Africa, nel Sahel abbandonato dai francesi. Come si comporteranno? Ripeteranno le esperienze afghane o si ricorderanno e avranno riconoscenza verso il loro protettore turco? Anche in Libia, dopo la caduta di Gheddafi, accolta da molti occidentali come “la soluzione del problema locale”, a prendere in mano il paese fu una miriade di milizie armate e rappresentative delle varie tribù esistenti in Libia e con le quali Gheddafi, con tutti i suoi errori e la sua crudeltà, aveva però individuato un punto di mediazione e le aveva tenute tutte insieme rispettose del suo potere.
E potremmo andare avanti con gli esempi di altre milizie costruite “ad hoc”, per il raggiungimento di certi obiettivi militari che poi, dopo la vittoria, si sono ribellate o semplicemente dimenticate dei propri “padrini”, acquisendo un ruolo autonomo e indipendente e terrificante sia per le popolazioni civili locali sia per la tranquillità di noi occidentali. Chi sono i jihadisti siriani, comandati da al-Jolani? Si proclamano moderati, amici di tutti e tolleranti di ogni religione. Apparentemente ci credono pure, alcuni di loro. Ma esistono molti dubbi in merito perché, bene o male, si tratta sempre di ex quaedisti e nessuno ha la certezza di come si comporteranno avendo a disposizione una “prateria vergine” come la Siria, con la possibilità quindi di recuperare parti del territorio del califfato che avevano dovuto abbandonare di tutta fretta. Circola una battuta negli ambienti diplomatici americani, riportataci dal giornalista Giorgio Ferrari, uno specialista di Medioriente: “Se Jolani è davvero un moderato, lo ammazzeranno molto in fretta: quando i vari comandanti delle milizie si accorgeranno che l’eventuale lotta alla corruzione vorrebbe dire lo stop alla fabbricazione e al commercio di Captagon e di prodotti petroliferi sottobanco, si sbarazzeranno di al–Jolani”.
Al-Jolani ha, quindi, tre mesi di tempo prima di indire le prime elezioni libere della Siria: riuscirà nell’intento di ricostruire una possibilità di dialogo fra tutte le etnie, i partiti e le confessioni religiose che oggi rappresentano, insieme ai curdi, la massa dei futuri votanti, garantendo una transizione democratica al paese? Edward N.Luttwak – l’autorevole opinionista e lobbista americano, molto ascoltato nei palazzi di Washington da parte dei repubblicani – ha scritto che immaginare una Siria unita costituisce la peggior soluzione prospettabile per il paese: “La Siria non fu mai concepita per funzionare come uno stato unitario sotto il dominio della maggioranza arabo-sunnita… e sarebbe uno sbaglio puntare a costruirla oggi di fronte ad una matassa inestricabile di etnie, partiti e confessioni religiose diverse”.
Secondo l’opinionista americano “E’ meglio lasciare che i siriani ricostruiscano il loro stato come meglio credono ma se i funzionari occidentali dovessero intervenire, non dovrebbero automaticamente favorire uno stato unitario e centralizzato”. Secondo Luttwak il modello di governance più idoneo per rappresentare la complessità delle popolazioni che vivono in quel territorio è una repubblica federale con il centro a Damasco e una autonomia delegata su molte materie alle varie entità giuridiche locali, federate. In questo quadro complesso e caotico nonché ricco di contraddizioni, il grande assente rischia di essere di nuovo l’Europa.
Di fronte ad una Turchia, membro della Nato, aspetto non marginale e da non trascurare perché sempre più attiva in Libia, nel Nagorno-Karabakh, in Bosnia-Erzegovina, in Albania, Bruxelles tace. La Siria potrebbe tornare ad essere un protettorato turco e la miopia europea è quella di permetterglielo, avallando i suoi progetti. Due parole infine sul destino della popolazione curda. Proprio il 25 dicembre scorso Erdogan ha dichiarato: “I combattenti curdi in Siria devono decidere se deporre le armi o venir sepolti in Siria assieme a quelle stesse armi”. Una sentenza di morte che non lascia spazio a speranze di pacificazione. Insomma, per tornare a quanto dicevo all’inizio di questo contributo, la liberazione della Siria costituisce sicuramente una notizia positiva per il resto del mondo e soprattutto per i siriani. Ma il futuro di quel paese deve essere gestito da una leadership mondiale che si deve impegnare a trovare un giusto equilibrio che bilanci la volontà delle popolazioni locali, le aspettative e le ambizioni dei paesi confinanti, il desiderio non di tutte le grandi potenze di innescare nuovi focolai di scontri militari ma di trovare mediazioni che consentano la costruzione di uno stato laico, pacifico, tra l’altro da ricostruire praticamente in toto.
Riccardo Rossotto