Fino ad alcune settimane fa, in Siria il potere è stato nelle mani del “Ba’at”, un partito di ispirazione laica, con una leggera tinta di socialismo, la cui leadership portava il nome di Bashar Al-Assad, figlio del precedente presidente, appartenente alla minoranza (15%) alawita, il ramo sciita dei musulmani. Sull’onda delle “primavere arabe”, la maggioranza sunnita, con l’appoggio franco-americano, cercò di far cadere il filo russo Assad, fallendo non tanto per la resistenza di quest’ultimo – che ha sempre goduto il favore dell’area occidentale del paese abitata da alawiti e cristiani – quanto per l’appoggio russo.

Da quel fallito tentativo nacque comunque una lunga guerra civile i cui attori, in mutevoli alleanze, sono stati il governo siriano appoggiato da russi e iraniani e talune milizie cristano-libanesi, l’Isis, i ribelli filoccidentali, le milizie curde filoamericane, Israele (in funzione anti iraniana) ed Erdogan, che ha occupato direttamente alcune aree della Siria settentrionale per tenere sotto pressione il governo siriano e i curdi. In tutto questo ginepraio, la miglior opzione è sempre stata ritenuta lo status quo, ossia una amministrazione autonoma curda nel Nord e il resto del paese sotto Assad, unica garanzia contro i gruppi terroristi sunniti.

Questo status quo è finito con la caduta di Bashar al-Assad, che ha segnato una svolta epocale per la Siria, aprendo scenari di incertezza, conflitti e una nuova spartizione del Paese che potrebbe addirittura portare alla dissoluzione dello Stato.

Il collasso del regime ha messo in luce la fragilità delle sue fondamenta. L’esercito siriano, lasciato allo sbando senza l’assistenza dei russi e degli iraniani – alle prese con i “problemi” Ucraina e Israele -, si è letteralmente dissolto. In una triste parodia del nostro 8 settembre i soldati dell’esercito siriano hanno abbandonato le uniformi, l’equipaggiamento e le armi leggere con ancora le munizioni in canna, si sono cambiati in abiti civili e sono corsi verso casa. Anche gli ufficiali hanno per prima cosa strappato le proprie mostrine e sono fuggiti. Una fuga che autorizza parallelismi con il crollo dell’esercito iracheno di fronte all’avanzata dell’Isis nel 2014. Fine della storia: non era più possibile salvare il governo di Bashar al-Assad e lo Stato da lui guidato.

Con Assad è venuto meno anche il partito Baath, un tempo simbolo dell’ideologia socialista e panaraba, portatrice di laicità nei governi del Medio Oriente. Al potere, in Siria, si è insediato il gruppo fondamentalista islamico HTS (Hayat Tahrir al-Sham) che altro non è che uno spin-off di Al Qaeda, guidata da Al-Jolani. Il cambio di inquilini, tuttavia, non cancella la nuda verità: la Siria è tornata a essere una terra di nessuno e già si vedono i primi esiti: Israele e Turchia stanno sfruttando la situazione per ampliare le proprie zone di influenza.

Tel Aviv ha intensificato le operazioni militari per creare una “fascia di sicurezza” nel Golan siriano. Poiché l’esercito siriano ha abbandonato la “zona cuscinetto” concordata tra Israele e Siria, Tel Aviv ha deciso che prevenire è meglio che curare e, per la remota ipotesi che in quella zona possano insediarsi organizzazioni terroristiche, ha seminato oltre 250 bombardamenti contro obiettivi definiti “militari”, in barba all’accordo siglato con Damasco nel marzo 1974 e che disegnava la cosiddetta “Linea Alpha”, a separare il territorio siriano da quello occupato di Israele.

Le Nazioni Unite hanno bollato come “illegale” il comportamento di Israele, abbaiando alla luna ancora una volta. Incomprensibile è la decisione di Israele di arrivare a 30 Km da Damasco con i propri carri armati, azione pubblicamente apprezzata dai ribelli di HTS (ex Al Qaeda) che ha causato insofferenza in chi ancora è in grado di vergognarsi.

Allo stesso tempo, Recep Tayyip Erdoğan continua a perseguire l’obiettivo di espandere la propria fascia di sicurezza nel nord della Siria, puntando anche a impedire ai curdi di ottenere autonomia nel Rojava. Gli scontri tra fazioni filo-turche e curde continuano a destabilizzare ulteriormente la regione.

Dal canto loro, gli Stati Uniti hanno attivato operazioni militari bombardando posizioni a nord ovest appartenenti alle milizie controllate dalla Turchia – un Paese aderente alla Nato! – in supporto delle milizie curde, col chiaro intento di mandare un messaggio ad Ankara. È quindi evidente che siamo già al “tutti contro tutti”.

Le fazioni jihadiste si propongono come protagoniste nella nuova Siria. Il leader di HTS, Abu Mohammad al-Jolani, ha cercato di ottenere legittimità politica internazionale con promesse di moderazione, ma il suo passato e i legami con la Turchia sollevano dubbi sulla reale possibilità di stabilire uno Stato stabile e inclusivo. La frammentazione del Paese lascia ampi spazi d’azione a milizie locali, minoranze religiose, e gruppi terroristici come l’Isis.

L’Occidente si trova, ancora una volta, a dover fronteggiare il pericolo di una nuova e massiccia ondata di rifugiati e lo fa in maniera pittoresca: dichiarando la Siria “Paese sicuro” e chiudendo le frontiere a possibili arrivi di profughi. Reggerà questa scelta? Con l’80% della popolazione sotto la soglia di povertà, il ritorno dei profughi rimane una sfida enorme. La Siria, ridotta a una “mini-Stato” frammentato e controllato da potenze straniere, rischia di diventare un nuovo buco nero del Medio Oriente.

Un miracolo è comunque già avvenuto: il leader jihadista Abu Mohammad al-Jolani, colui che mostrava soddisfatto le foto con le teste tagliate agli infedeli catturati, ora si è tagliato la barba ed è diventato un politico “Pragmatico”. Su di lui pende ancora l’immagine di ricercato e la taglia di 10 milioni di dollari, ma nel giro di pochi giorni è passato dall’essere un “pericoloso terrorista” a nuova icona rivoluzionaria, come Fidel Castro o Che Guevara. Non è chiaro perché non sia stata giocata anche la carta Giuseppe Garibaldi! A questo miracolo è legata anche la soddisfazione per i “successi” della Turchia, che hanno fatto dimenticare di colpo le responsabilità di Erdogan nella repressione dei curdi.

Nel frattempo i vittoriosi “ribelli moderati” – come sono stati immediatamente ribattezzati in Occidente quelli finanziati dalla Turchia – fanno esecuzioni pubbliche videoregistrate e rapiscono le donne curde della città di Manbij, nel nord della Siria in previsione della istituzione di un nuovo “califfato” come quello di Daesh che tanto aveva scandalizzato il mondo intero, con la sua Sharia e il ritorno della schiavitù.

In tutto questo caos, a nessuno è venuto in mente di ricordare che la Siria è tutt’ora uno stato sovrano. E nessuno si è posto il problema che prima di cancellare il passato di un Paese è indispensabile indicarne un possibile futuro. Chi si assume l’incarico di ciò, per quanto riguarda la Siria?

La schizofrenia geopolitica si riflette anche nella convinzione che qualsiasi nemico di Assad sia automaticamente un amico della democrazia. E così, tra una foto celebrativa e un editoriale grondante ottimismo, la Siria si avvia a diventare un nuovo teatro del caos, dove gli stessi “liberatori” saranno i primi a rimpiangere ciò che hanno contribuito a distruggere.

La caduta del regime di Bashar al Assad ha avuto anche un inaspettato costo per immagine dell’Italia, a causa di due decisioni del governo italiano: riaprire l’ambasciata a Damasco e proporre un piano di rimpatrio dei rifugiati siriani, come se fosse un’entità politica sovrannazionale.

Due iniziative apparse azzardate agli occhi delle cancellerie europee che hanno attribuito a esse un doppio significato: cercare un ruolo di leadership sul tema e ridurre l’influenza della Francia in una regione strategica. Due obiettivi non raggiunti e che, inevitabilmente, si sono trasformati in spiacevoli boomerang. L’imbarazzo italiano sulla Siria è emblematico di una politica estera poco coordinata e spesso in contrasto con quella dell’Unione Europea.

Mario Grasso

Mario Grasso

Mario Grasso, laureato in Scienze Sociali, giornalista pubblicista, un passato da manager aziendale e saggista, un presente da scrittore di narrativa

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