Le statistiche, recentemente pubblicate da La lettura, settimanale culturale del Corriere della Sera, ci dicono che in Italia, 96.197 persone sono senza fissa dimora, di questi ben 12.804 minori. E ancora: sono 415 le persone senza fissa dimora decedute in strada nel 2023. Su questo fenomeno preoccupante Lorella Chechi, insegnante di scuola secondaria di primo grado di Grosseto, ha scritto un libro “Vite dimenticate”, pubblicato dalla Oltre Edizioni, casa editrice che ha pubblicato il primo libro della scrittrice toscana “Il paese degli orchi” in cui l’autrice racconta con grande verità la sua esperienza di madre di una bambina autistica.
Un racconto, il suo, dal quale emerge come, al di là delle pubbliche dichiarazioni sull’assistenza pubblica, le famiglie, nonni compresi, siano sole nell’affrontare situazioni così estreme, peraltro nella totale indisponibilità da parte della società che mal tollera il disagio in cui vivono persone con simili problemi. A riguardo lei porta nel suo libro vari esempi di intolleranza e incomprensione nei confronti dei disturbi di sua figlia.
Lorella Chechi, forse è la preoccupazione di quale potrà essere il destino di sua figlia, una volta rimasta sola al mondo, ad averla spinta a fare una ricerca su queste vite dimenticate, sulla cui storia a indagato nel suo nuovo libro dal significativo titolo di “Vite dimenticate”?
Sicuramente la preoccupazione per il futuro e per il cosiddetto “Dopo di noi” c’è sempre. Tuttavia, cerco di vivere bene il presente, costruendo una base solida per gli anni a venire. Il mio sogno è dar vita ad una onlus che organizzi attività ricreative e ludiche per trascorrere del tempo insieme; progetti inclusivi, direi misti, in cui dovrebbero essere coinvolti non soltanto i disabili ma tutti coloro che vorranno mettersi in gioco.
Molto difficile da realizzare, ma io ci proverò. Chi convive con difficoltà motorie o intellettive deve avere l’opportunità di confrontarsi con coloro che mostrano una crescita per lo più lineare: la mia convinzione è che trascorrere alcune ore insieme ai coetanei a fare “tutto e niente” sia puro ossigeno. Invece, ad oggi siamo circondati per lo più da belle parole e da frasi ad effetto, mentre le iniziative “miste” e inclusive se ne vedono poche. Le “vite dimenticate” su cui ho indagato non vivevano in mezzo ad una strada.
Non avevano più relazioni con nessuno, si erano isolate all’interno della loro abitazione, se uscivano lo facevano raramente. Una delle motivazioni principali ad avermi spinto a fare questa ricerca è soprattutto l’indifferenza degli altri nei confronti di chi ha un disagio evidente. Per me è incomprensibile sparire così nel nulla, come se gli esseri umani fossero bolle di sapone. I privati cittadini e le istituzioni si sono dimenticati immediatamente di questi individui, fragili, strani e introversi, pensando ad un loro trasferimento in un’altra località.
Che cosa l’ha di più impressionata in questa ricerca?
Le “Vite dimenticate” della mia ricerca sono gli invisibili, coloro che si rinchiudono volontariamente all’interno della loro dimora, sommersi dentro una montagna di oggetti accumulati nel tempo. Sono simili ai senza fissa dimora, lo stile di vita è lo stesso. Sono rimasta profondamente colpita dal fatto che il vero problema non è legato alla povertà economica ma alla povertà relazionale e umana. Questi individui spesso hanno ricoperto ruoli professionali di rilievo: sono stati dirigenti d’azienda, docenti, magistrati, ecc. e talvolta sono proprietari di abitazioni belle e spaziose.
Ma, non essendo visibili all’esterno, gli altri li dimenticano con facilità. Di certo mi ha impressionato molto anche l’incredulità dei vicini di casa, dei parenti, dei conoscenti, dei compaesani e in particolar modo delle istituzioni, di fronte al ritrovamento di questi poveri esseri umani ormai cadaveri. Durante questa ricerca ho avuto tante conferme, principalmente ho compreso che siamo diventati troppo superficiali, poco sensibili e poco coraggiosi.
Inoltre, mi ha impressionato molto il sapere che molti perdono la voglia di sentirsi vivi, per questo cadono in depressione e si seppelliscono nelle loro case, che diventano delle vere e proprie discariche. La depressione mi spaventa molto, anche per il fatto che è quasi impossibile aiutare chi ne soffre. Siamo tutti impotenti di fronte a questo disturbo che si insinua nelle profondità dell’essere umano distruggendolo lentamente ma inesorabilmente. Infatti, si evince che la malattia dell’anima e della psiche sia collegata con il fenomeno del barbonismo domestico, simboli purtroppo del nostro secolo.
Nel suo primo libro “Il paese degli orchi” racconta come la presenza di una figlia (o figlio, ovviamente) così difficile imponga alla famiglia sacrifici di ogni tipo, non essendo la società, pur nelle migliori situazioni che non sono certo quelle dell’Italia, preparata a sostenerla con servizi pubblici adeguati. Dobbiamo infatti considerare che i genitori devono pur lavorare per vivere e, nello stesso tempo, non possono lasciare sole per tante ore queste creature, se non a costi proibitivi quando non chiedere aiuto ai nonni, se ci sono e se, soprattutto, hanno capacità tali da mettere in campo. Per le persone isolate da tutto e da tutti è lo stesso?
“Il sistema italiano, se funzionasse sarebbe perfetto” sono le parole del primario di un ospedale pediatrico, riportate anche nel libro “Il paese degli orchi”. Lui si riferiva al sostegno nelle scuole, io credo che si possa applicare in tutti i settori e ambienti sociali. Con la disabilità la vita familiare viene stravolta, bisogna imparare a rinascere ogni giorno. Le politiche sociali non sono in grado di sostenere in modo adeguato i più fragili, nonostante quasi sempre ci sia l’intento di dare un supporto vero.
Secondo me, talvolta non sono in grado neppure di capire nel profondo la sofferenza delle famiglie oppure il disagio di chi da un momento all’altro perde tutto e si ritrova in mezzo ad una strada. Mi è rimasta molto impressa la notizia che riferiva di alcuni metodi disumani per tenere lontani i senza tetto dai luoghi pubblici e affollati, come la Stazione Termini durante le fredde notti invernali: vengono cacciati via i volontari che distribuiscono cibi caldi e spruzzano acqua gelida per terra e a ridosso delle vetrate. Fortunatamente, ci sono persone impegnate nella tutela dei più deboli che non ci stanno a tutto questo e denunciano tali atrocità.
Dal suo libro si evince che molte di queste vite dimenticate lo sono in primis proprio dalle famiglie. In alcuni casi, ad esempio, racconta di figli che del tutto ignorano il destino dei loro genitori. Quali sentimenti li spingono a dimenticare, ancora vivi, i loro genitori?
I protagonisti di queste storie non volevano più rapporti con nessuno. Qualcosa si era rotto dentro di loro e non sono mai riusciti a superare il trauma. Non mi risulta che avessero figli adulti, soltanto nella prima triste e particolare storia c’erano, ma erano piccoli. La verità è che le famiglie si sono dimenticate dei loro cari, caduti in un profondo disagio emotivo, non sospettando minimamente che fossero deceduti. Non sono mai state effettuate ricerche approfondite o denunce di scomparsa da parte di un fratello, di una sorella o dei nipoti, soltanto rassegnazione e indifferenza, nonostante non avessero mai avuto riscontri certi.
Tra i tanti fatti da lei pescati nelle cronache emerge anche il disinteresse dei vicini di casa, che paiono non accorgersi di nulla, tipo quella figlia che, per continuare a ricevere la pensione della madre anche dopo che questa era morta, ha tenuto per anni il cadavere in casa, tenendo la finestra della camera aperta così da disperdere l’olezzo della putrefazione fino ad arrivare alla mummificazione, oppure di quei due figli, tipo Hans e Gretel, tenuti segregati in casa nel terrore che, uscendo, fossero preda di incidenti, gente cattiva e quant’altri pericoli. E i vicini, appunto, una domanda su dove erano finiti la madre nel primo caso e i figli nel secondo non se la sono mai chiesta?
Il disinteresse dei vicini, come già accennato, mi ha lasciato senza fiato. Di sicuro se lo chiedevano dove fosse finita la madre. Ma, pare che si fossero sempre accontentati della risposta della figlia (“Mamma è in una casa di riposo”). Sono convinta che il disagio della figlia che convive per dieci anni con il cadavere della madre, fosse evidente più o meno a tutti. Dalla ricostruzione giornalistica è palese la scarsa lucidità della signora. Infatti, non sono sicura che si sia resa conto di ciò che stava facendo, non penso che l’unico fine fosse soltanto percepire la pensione della madre. Comunque, ritengo che i servizi competenti e predisposti dovrebbero essere i primi ad occuparsi di tali situazioni.
Non è corretto che i privati cittadini debbano occuparsi di questioni così delicate, visto che quasi sempre quando denunciano o aiutano concretamente, si ritrovano spesso da soli, senza un supporto istituzionale, in balia delle beghe burocratiche e delle carte da firmare. Le varie istituzioni dovrebbero avere “una responsabilità comune” nei confronti dei più fragili e bisognosi, collaborando tra di loro. Non possono pretendere che siano solamente i vicini di casa a fare rete. Nell’altro caso, è appurato che tutto il paese sapesse.
All’inizio, furono fatti diversi tentativi per convincere la madre a far uscire i figli; in seguito, dopo forse una decina di anni, qualche parrocchiano, un vicino e una volontaria si recarono nell’appartamento per offrire quell’aiuto che la madre era stata costretta a chiedere, poiché il figlio si era ammalato di distrofia muscolare. Però, un sostegno continuo nel tempo non fu mai attivato da parte delle istituzioni pubbliche. È appurato che i figli non avessero mai messo piede fuori casa per trent’anni, mentre la mamma nei primi anni usciva per delle velocissime commissioni.
Le emozioni provate nel momento in cui appresi questa storia, possono essere sintetizzate nella frase riferita dall’amico d’infanzia (“Mi sono sentito morire quando ho letto questa storia”). Nei vicini prevalgono la superficialità, l’indifferenza e il menefreghismo; si adeguano a quella terribile situazione, convivendo con il cattivo odore che aleggiava sopra le loro teste, consegnando con naturalezza quel poco che la madre chiedeva, come se sopravvivere sepolti vivi in casa fosse una condizione umana accettabile.
Lei si è fatta un’idea su quale potrebbe essere la soluzione perché queste vite non siano dimenticate da tutti o ritiene che una buona percentuale di queste persone preferisca vivere così?
Probabilmente, all’inizio qualcuno opterà per vivere senza fissa dimora sentendosi più libero, come la vicenda del giovane medico iberico. Tuttavia, credo che oggi nella maggior parte dei casi sia una scelta obbligata, sia per i visibili sia per gli invisibili, a causa di una serie di motivazioni, variabili da caso a caso. Senz’altro, nella società odierna è un attimo ritrovarsi senza nulla e finire in mezzo ad una strada oppure oppressi da un malessere che ti toglie energia e voglia di vivere. Io non ho una soluzione e sarà molto difficile trovarne una. Tuttavia, sono convinta che l’aumento di questi casi sia dovuto principalmente ad una mancanza di umanità da parte di tutti, privati e istituzioni.
Diego Zandel