Dopo la Seconda guerra mondiale, grazie agli accordi di Breton Woods del 1944, il dollaro fu assunto come fulcro del sistema finanziario globale, in un rapporto di convertibilità fissa con l’oro. Alla fine degli anni Settanta, Nixon decretò la fine degli accordi e il dollaro non fu più legato all’oro. Questo non significò la fine della centralità del dollaro perché, essendo il più richiesto, ne uscì rafforzato grazie alla fiducia che i mercati riponevano nell’economia americana e nella sua stabilità. Non a caso la virtù più apprezzata dagli agenti economici è proprio la fiducia, che poi diventa stabilità.

Ma non si può costringere il vento a soffiare sempre nella stessa direzione. Una fetta sempre più grande del mondo è oggi stufa di finanziare il debito degli Usa. Il dollaro è in un mare agitato per colpe essenzialmente degli Usa. A rendere più alte le onde contribuisce l’ascesa di nuovi attori geopolitici, primo fra tutti la Cina, che denunciano un fatto incontrovertibile: il re è nudo, il potere del dollaro non dipende dalla salute dell’economia americana ma dalla sua forza militare.

Fatta questa premessa, non c’è motivo per cui non debba essere rivisto il ruolo del dollaro, anche perché l’economia non è una scienza esatta, tantomeno una disciplina separata dalla sfera sociale. Siamo arrivati al bivio: o si accetta che è finita l’era del dominio del dollaro, e si dà vita a un nuovo equilibrio mondiale policentrico, o si costringe le altre potenze economiche ad armarsi per annullare il vantaggio americano.

L’alternativa al dollaro, nel mondo occidentale, ci sarebbe – l’euro – ma a non esserci è l’Europa. Approfittando di questa doppia debolezza, i Paesi BRICS si affannano a cercare una loro alternativa e i risultati di questa ricerca cominciano a essere concreti. All’inizio di ottobre è stata portata a termine per la prima volta un’operazione commerciale tra Cina e Brasile in valute locali, con transazioni finanziate e regolate in yuan e convertite direttamente in real, la moneta brasiliana.

L’operazione, che ha avuto un forte impatto in Cina, è stata considerata una pietra miliare nella storia del commercio sino-brasiliano. Il Brasile è uno dei Paesi più attivi nel movimento che cerca di scrollarsi di dosso il peso del dollaro. Il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva non perde occasione per ricordare che la decisione di rendere il dollaro la valuta dominante, dopo la cessazione del gold standard, non è stata universalmente accettata e invita i paesi del Sud del mondo a collaborare per sostituire il dollaro con le proprie valute nel commercio internazionale. La molla che spinge il movimento anti dollaro è, ovviamente, la suggestione del passaggio da un ordine unipolare a una nuova multipolarità.

Le parole di Lula suonano come musica per le orecchie del governo cinese, impegnato a rafforzare la sua valuta nell’arena finanziaria globale. E un numero crescente di Paesi comincia a schierarsi dalla parte dello yuan. È il caso dell’Argentina, il cui governo ha annunciato che i suoi acquisti dalla Cina saranno pagati in yuan, invece che in dollari, per preservare le sue scarse riserve internazionali. È anche il caso del Cile, che ha creato la prima banca di compensazione dello yuan in America Latina, per facilitare le transazioni commerciali senza ricorrere al dollaro.

La Bolivia potrebbe essere il prossimo paese del Sud America a seguire la strada tracciata da Brasile e Argentina. Il presidente boliviano Luis Arce ha affermato che la de-dollarizzazione è una tendenza regionale a cui il suo Paese potrebbe presto aderire.

Su questo fenomeno si levano voci competenti anche in Occidente, come quella dell’economista Peter St Onge, Visiting Fellow presso la Heritage Foundation, dal quale arriva l’avvertimento che “la de-dollarizzazione è reale e sta avvenendo velocemente”. L’economista ha supportato l’affermazione citando dati del Fondo Monetario Internazionale che non lasciano dubbi: “la quota del dollaro è passata dal 73% (2001) al 55% (2020). È scesa al 47% in seguito all’imposizione delle sanzioni alla Russia e ora il processo è dieci volte più veloce rispetto ai due decenni precedenti”.

A rendere più pesanti le parole dell’economista ci ha pensato Elon Musk, sostenendo “Se usi continuamente la tua valuta come arma, gli altri paesi smetteranno di usarla”. La dichiarazione di Musk, che tuttavia va analizzata tenendo conto dei suoi interessi economici e delle sue simpatie politiche, è indicativa di una tendenza che sta prendendo piede e inizia a minare la posizione del dollaro come centro del sistema monetario e finanziario internazionale.

Già in altre occasioni abbiamo ricordato su questo giornale che gli imperi del passato sono caduti più per magagne interne che per attacchi provenienti dall’esterno. Anche il potere del dollaro sembra minacciato, oltre che dalla crescita di potenze emergenti, anche da scelte americane, in particolare in politica estera. Un esempio è rappresentato dalle sanzioni economiche contro la Russia per l’invasione dell’Ucraina, che hanno aperto una finestra di opportunità per la rivalutazione della divisa cinese. Durante un incontro con il presidente cinese Xi Jinping nel marzo di quest’anno a Mosca, il presidente russo Vladimir Putin ha supportato l’uso dello yuan nel commercio internazionale, dichiarandosi favorevole all’utilizzo dello yuan nelle transazioni tra la Russia e i paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina.

Questa mossa è stata sostenuta dalla presidente della Banca dei BRICS, Dilma Rousseff – già presidente del Brasile dal 1º gennaio 2011 al 31 agosto 2016 -, che non esclude l’idea di una moneta unica tra i Paesi che fanno parte del blocco. Le sue dichiarazioni sono in linea con quanto sostiene il presidente Lula, suo mentore politico, il quale ha esortato i paesi BRICS a utilizzare le proprie valute per il commercio bilaterale e gli investimenti. C’è chi si spinge anche oltre, tornando ad accarezzare un’idea già partorita da Keynes: creare una moneta mondiale.

Il Sud America è diventato uno dei principali teatri della disputa tra dollaro e yuan, ma non è l’unico. L’elenco degli utilizzatori dello yuan si allunga giorno dopo giorno e va oltre i Paesi aderenti al gruppo BRICS. Anche le regioni più sviluppate stanno valutando il processo di sganciamento delle loro valute dal dollaro e le strategie da adottare in questo scenario. È il caso della Francia che, per ragioni diverse da quelle del Sud del mondo, sta lavorando per ridurre la sua dipendenza dalla valuta statunitense. Se questo processo dovesse andare in porto ci sarebbe da chiedersi se la guerra tra dollaro e yuan cominciata nel Sud del mondo si fermerà lì.

Questo attacco concentrico da parte dei BRICS porterà all’affossamento del dollaro? È velleitario pensare che ciò possa avvenire in tempi brevi per il semplice motivo che non esiste ancora un mercato mondiale consolidato per la valuta asiatica. Facciamo un esempio terra-terra: un esportatore argentino che venda tonnellate di carne bovina in yuan non avrà dove investire gli yuan senza prima convertirli in dollari. La mancanza di un mercato finanziario aperto e sufficientemente sviluppato in Cina impedirebbe perciò all’esportatore argentino di mantenere in equilibrio il bilancio delle vendite di carne e di investirlo in modo redditizio.

Allora, se è così difficile, perché insistere nell’uso dello yuan? È tutto un bluff? No, non lo è. Al di là della retorica sull’autonomia commerciale e la sovranità economica dei BRICS nei confronti degli Stati Uniti, la riduzione dei costi è la principale attrattiva per le aziende e i governi. In effetti, le operazioni in yuan sono libere dai rischi delle fluttuazioni del dollaro, dal pagamento delle commissioni sul cambio e possono consentire ai governi di sviluppare il loro commercio internazionale senza dover utilizzare le loro riserve in dollari. Per Paesi come l’Argentina, per esempio, che hanno riserve di dollari molto scarse, questo tipo di commercio si rivela estremamente utile, quasi un’ancora di salvezza.

Gli sforzi della Cina per rafforzare lo yuan nel commercio globale non sono velleitari, tantomeno destinati al fallimento. Sia in Medio Oriente che in America Latina c’è una maggiore disponibilità politica a usare lo yuan. Inoltre, ai BRICS sono giunte 19 candidature da parte di nuovi membri. L’Arabia Saudita ha annunciato che sta valutando la possibilità di vendere petrolio con pagamenti in euro, yuan e altre valute. Anche l’Egitto, che già utilizza lo yen giapponese, prevede di adottare lo yuan. L’Iraq è uno dei paesi che ha recentemente iniziato a fare affari con la Cina utilizzando lo yuan, mentre gli Emirati Arabi Uniti stanno prendendo in considerazione la rupia indiana per scambiare merci con l’India.

Nonostante queste iniziative e questi discorsi entusiastici, la verità è che lo scambio tra Paesi che non usano il dollaro è irto di sfide e di rischi, poiché il dollaro continua a svolgere un ruolo fondamentale nei mercati globali delle materie prime. Tuttavia, l’interesse dei leader del Sud del mondo e la crescente quota dello yuan nella finanza commerciale globale mostrano che c’è un aumentato interesse per la ricerca di alternative al dollaro che nei prossimi anni potrebbero minare l’egemonia della valuta statunitense.

È probabile che il dollaro e lo yuan coesistano come valute dominanti nei mercati internazionali, ma con il dollaro che mantiene un ruolo predominante a lungo termine perché è profondamente radicato nel sistema finanziario globale, utilizzato in una vasta gamma di transazioni internazionali e come riserva da parte delle banche centrali. Anche se lo yuan sta guadagnando terreno, la piena internazionalizzazione della valuta cinese richiede più trasparenza nei mercati finanziari cinesi e liberalizzazioni che il governo cinese potrebbe non essere disposto a implementare completamente nel breve termine.

Mario Grasso

Mario Grasso

Mario Grasso, laureato in Scienze Sociali, giornalista pubblicista, un passato da manager aziendale e saggista, un presente da scrittore di narrativa

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