Il rinvio della sugar tax al 2025 è stato accolto con un misto di favore e scetticismo, poiché solleva interrogativi sull’efficacia di questa misura nel contesto italiano. Non è peraltro la prima volta che il legislatore dispone un rinvio: la sugar tax era stata infatti introdotta con la Legge di Bilancio 2020 (legge n. 160/2019) dal Governo Conte II, ma fino ad oggi la sua entrata in vigore è stata oggetto di continui posticipi.

Sembra corretto quanto ha di recente affermato Assonime, secondo cui l’ennesimo rinvio dovrebbe essere l’occasione per una revisione dell’intera disciplina, dato che questa imposta (come pure la plastic tax) presenta numerose criticità non solo operative, ma anche “di sistema”.

Ora, è chiaro che tra i principali fattori di rischio di importanti patologie (come quelle cardiovascolari o il diabete) vi sono senz’altro gli stili nutrizionali e la sedentarietà; è di tutta evidenza, sia in ambito scientifico che – ormai – nel senso comune dei cittadini, che l’obesità e il sovrappeso possono essere identificati come causa di ictus, di infarti, di malattie coronariche o di tumori.

Non è quindi il merito della questione ad essere in discussione, ma il metodo. In un Paese con una pressione fiscale notevole (eufemismo) lo strumento della tassazione, infatti, potrebbe non essere il metodo più adeguato al fine di modificare i comportamenti alimentari, che necessiterebbero piuttosto di una corretta informazione ed educazione alimentare. Inoltre, con l’Italia al 37° posto mondiale per consumo di bevande zuccherate (non certo, quindi, nei primi posti) resta incerto il reale impatto di questa tassa sulla diminuzione del consumo di bibite zuccherate.

Ciò a maggior ragione se si considera che le esperienze internazionali sulla sugar tax sono contrastanti. In alcuni paesi, l’introduzione di questa tassa non ha portato a una significativa riduzione dei consumi di bevande zuccherate e ha imposto ulteriori oneri alle aziende produttrici, con potenziali effetti negativi sui loro redditi e sull’occupazione. Sebbene l’Organizzazione Mondiale della Sanità sostenga che aumentare il costo delle bevande zuccherate possa ridurne il consumo, non esiste una chiara correlazione tra la tassazione e una riduzione stabile dell’obesità.

La Fondazione Veronesi, in un commento su uno studio inglese, ha osservato che nei paesi dove la sugar tax è in vigore, come il Regno Unito, non è dimostrato un preciso rapporto causa-effetto tra tassazione e diminuzione del peso, ma solo una relazione temporale. Sembra necessario affiancare strategie aggiuntive alla leva fiscale per ridurre l’obesità, soprattutto quella infantile.

La Fondazione sottolinea anche che l’Italia, per cultura e tradizioni alimentari, non è paragonabile ai Paesi con alti tassi di obesità e consumo di junk food. Inoltre, il consumo di bibite zuccherate è diminuito del 20% negli ultimi dieci anni, segno che il cambiamento può avvenire senza ricorrere a nuove imposte.

L’adozione della sugar tax potrebbe nondimeno comportare rischi economici significativi, non solo per i consumatori, ma anche per i produttori. Se i produttori, infatti, non aumenteranno i prezzi per i consumatori finali, l’imposta diventerà solo un costo aggiuntivo per le aziende, riducendo la loro marginalità, con le conseguenze del caso in termini di occupazione e di investimenti. Questo scenario non è certo improbabile, perché si inserisce in un contesto economico già difficile, con il potere d’acquisto degli italiani messo a dura prova dall’inflazione e dalla bassa crescita dei salari.

Soprattutto, occorre considerare un ulteriore elemento: anche assumendo che la sugar tax venga traslata interamente, o quasi interamente, sui consumatori finali – come invero alcuni studi europei sembrano dimostrare, con riferimento alle esperienze di altri Paesi – siamo sicuri che in effetti questa variazione “al rialzo” dei prezzi delle bevande zuccherate sia suscettibile di comportare una riduzione della domanda da parte dei consumatori? I medesimi studi europei rilevano che la riduzione dei consumi medi parrebbe in effetti minore rispetto all’aumento di prezzo, e ciò rappresenta certamente un problema in termini di efficacia della misura.

Non dimentichiamo inoltre che parlare di consumi “medi” può essere fuorviante: la sugar tax potrebbe risultare regressiva, penalizzando le fasce più deboli della popolazione, fasce che spendono una percentuale maggiore del loro reddito in cibo e bevande e tendono a consumare più junk food. In questo modo, si creerebbe un’ingiusta redistribuzione del carico fiscale, colpendo maggiormente chi ha meno risorse.

Nondimeno, siamo sicuri che l’effetto di sostituzione tra i prodotti (che inevitabilmente, per le fasce più deboli di popolazione, vi sarebbe) non avvenga in realtà a beneficio di prodotti di minor prezzo e più bassa qualità? In altri termini, se il consumo di bevande zuccherate rimane stabile e cresce il prezzo, il consumatore (soprattutto quello con minor reddito disponibile) troverà più efficace passare dall’acquisto della gazzosa “di marca” a quello della gazzosa “no logo”, invece che ridurne il consumo.

Queste sono solo alcuni esempi delle questioni che un tributo come la sugar tax, che ha ovviamente anche una finalità extra-fiscale e non solo “di gettito” pone non solo nell’ambito del sistema tributario, ma nello stesso sistema economico e produttivo del Paese.

A ciò si aggiunge che le esperienze passate in Europa, come quella danese, mostrano non solo i risultati positivi, ma anche gli effetti negativi di simili imposte. La Danimarca, ad esempio, aveva introdotto una tassa sui grassi saturi, poi abrogata nel 2012, che aveva sì ridotto il consumo di grassi saturi, ma aveva anche causato una perdita di posti di lavoro e incentivato l’acquisto transfrontaliero di tali beni. L’Italia dovrebbe considerare con attenzione questi rischi – anche perché è evidente che, dall’introduzione della sugar tax a fine 2019, il contesto economico (e sociale) è radicalmente cambiato.

In conclusione, occorre domandarsi se, invece di introdurre una nuova imposta regressiva e potenzialmente inefficace, non sia più opportuno incentivare il consumo di prodotti salutari e promuovere una maggiore educazione alimentare nelle scuole e nelle famiglie, specialmente tra le fasce più deboli della popolazione.

Nel contesto internazionale, dove pure sono state adottate in vari Stati imposte sugli zuccheri o sui grassi, l’approccio che sembra essere dominante è quello dell’education, cercando di convincere il consumatore ad adottare scelte di consumo più salutari senza tuttavia adottare misure coercitive o prelievi fiscali. Forse potrebbe essere la strada più adeguata anche in Italia.

Alberto Franco

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