La ringhiera del terrazzo al mare è la siepe che demarca l’infinito mare-cielo.
La questione era, in quel momento, se riprendere in mano il carteggio Wagner-Nietzsche, l’epistolario d’amore di Foscolo, “Sotto il sole giaguaro” di Calvino o rimanere su uno dei libri su Matteotti per un lavoro che devo approntare per novembre.
Squittisce il cellulare.
È Giancarlo Scaglione (cfr. Una gomma squarciata e un’occasione fortunata e Vigne antiche e orchidee – Pian dei sogni) che mi invita ad andare con lui a trovare un suo carissimo amico, “un personaggio molto importante” chiosa.
“Comandi!”, ridiamo.
Appuntamento alle 8.30 a Barbaresco.
Angelo Gaja, wow!
Il Re del Barbaresco (e non solo…).
Parto che è ancora buio per poter vedere i primi raggi del sole che “elencano” – per dirla come Gadda – i filari delle splendide vigne.
Arriva Giancarlo e di lì a poco Angelo Gaja, premuroso.
Subito verso una vigna innovativa che vuol mostrare a Giancarlo.
“Il bosco va salvaguardato”, dice.
Ed è come un lampo: questo è uno degli argomenti di cui spesso Giancarlo ed io parliamo.
Eh, sì, il clima cambia e la scommessa può consistere nel posizionare le vigne a una maggior altitudine, cercando di conservare la ricchezza e varietà dell’ambiente circostante.
Ci accompagna in questa vigna ad oltre 600 metri s.l.m.: appena al di là c’è un fitto e variegato bosco di Langa, di Alta Langa.
È suggestivo questo contrasto tra la parte esposta a sud perfettamente coltivata e la parte opposta della valle, completamente selvaggia.
La foto che mette in risalto questo paesaggio è inevitabile.
Si tratta di varietà di uve bianche.
Diverse varietà indigene, alcune delle quali mai coltivate prima in altitudine.
È una tavolozza di uve diverse per verificarne l’idoneità, l’acclimatamento, la qualità e il rendimento a quelle altitudini inusuali.
Tra me e me ricordo che tanti anni fa alla Cantina di Caldaro, dopo una bella “spesona” natalizia, mi omaggiarono di una bottiglia di Sauvignon Blanc scandendo (come solo i madrelingua tedesca sanno scandire in italiano) che era una vigna a 650 metri di altitudine.
Ricordo anche che lo spumante Trento DOC viene prodotto con uve coltivate fino a 800 metri s.l.m.
Ma non dico niente.
Sono lì per ascoltare e guardare.
Guardare e ascoltare.
Per il regime delle acque nel vigneto inerbito e per conservare la varietà delle essenze, la vigna è regolarmente attraversata da “tagli” in senso verticale con coltivazioni di querce roverelle, ciliegi selvatici, aceri, leguminose e altre piante per ben il 20% della superficie complessiva.
Giancarlo sottolinea: “Dove c’è la vite, ci deve sempre essere la quercia …”.
Questi due “ex ragazzi” che hanno superato la seconda quarantina si muovono agili sui ripidi pendii della vigna.
Giancarlo raccoglie una zolla di terra, la osserva, la sfarina tra le mani, la annusa, la osserva ancora.
Poi il suo sguardo si incrocia con quello di Angelo Gaja, fanno segno di sì e sorridono.
È la terra giusta, la terra perfetta.
Giancarlo estrae uno strumento che misura la qualità dell’aria: pulitissima.
Raccoglie qua e là qualche acino d’uva e li ripone in un fazzoletto.
Poi li esaminerà, poi li assaggerà.
Angelo Gaja ci accompagna nella nuova cantina (neanche a dirlo il cancello in ferro raffigura una quercia) nella quale verranno prodotti tutti i vini bianchi dell’Azienda.
La cantina è bellissima, modernissima e dalla strada si vede ben poco.
Neanche la vigna che abbiamo visitato si vede dalla strada.
E non è una strada qualunque: lambisce il monumento alla donna di Langa e in altra direzione poco lontano si trova la Cascina Pavaglione de La Malora di Fenoglio.
Zona di Resistenza e partigiani, terra di sudore e di sangue.
Dal terrazzo panoramico una vista magnifica su tutte le Langhe.
Senza che fosse annunciata, senza che l’avessi supposta (l’avevo solo pallidamente lambita con un pensierino recondito) siamo invitati a una degustazione nel Castello nel centro a Barbaresco.
Siamo accolti dalla figlia primogenita Gaia (per me sarà sempre GaiaGaja in-una-parola-sola, un bell’auspicio di felicità!).
Lavora nell’Azienda di famiglia come i fratelli Rossana e Giovanni.
È lei a guidarci nella degustazione.
Si tratta di otto vini.
Il fior fiore della produzione e ormai della tradizione.
È perfetta, precisa, geometrica.
Angelo Gaja dall’altra parte del tavolo ci osserva.
Sono un po’ in soggezione.
GaiaGaja tiene la linea di condotta dei degustatori di professione.
Giancarlo bagna appena le labbra.
Io bevo.
Certo che bevo, ci mancherebbe altro!
Vino per vino ascolto le loro osservazioni e considerazioni.
Io sono travolto.
Procediamo, ma io continuo a tornare indietro anche sui vini già assaggiati.
Sto cercando di trovare il modo di ritenere con concentrazione quello che sto vedendo, quello che sto sentendo, quello che sto assaporando.
Il commiato dopo questa splendida giornata è piacevole e cordiale.
A pranzo con Giancarlo Scaglione a La Piazzetta di Valdivilla (cfr. Un approdo sicuro a La Piazzetta) pian piano cerco di riordinare le idee, anche col suo aiuto.
Il mio viaggio di ritorno è stato senza radio né musica.
Silenzio.
Ero concentrato a cercare di collocare ciascun vino in un’ideale mia personalissima tavola cartesiana.
Ascissa e ordinata: tac!
Ogni vino in una sua posizione.
Ci ho messo due giorni a tirare un po’ le fila.
Sì, perché ho una certa dimestichezza con i baldanzosi vini del mio Trentino, ma i vini di Angelo Gaja sono “solenni”.
Sì, “solenni”.
Ci ho pensato e ripensato su e sono arrivato a questa conclusione: “solenni”.
Nei giorni seguenti ho letto con grande interesse il libro che ci ha donato, dedicato al Sorì San Lorenzo: il Barbaresco che in un certo senso costituisce la bandiera di casa Gaja.
Ho letto tante cose affascinanti che non sapevo e a cui mai avrei pensato.
L’ho letto in pochi giorni seguendo sulla brochure la posizione dei vari vigneti menzionati.
Via via ho cercato informazioni sui grandi personaggi di cui si racconta nel libro e di cui Angelo Gaja e Giancarlo Scaglione hanno diffusamente e con affetto ricordato le gesta.
Ma da quel giorno bevo solo acqua.
Sì, è come se temessi di allontanare e sbiadire quelle sensazioni che cerco di ritenere e trattenere, elaborare e conservare.
Passano i giorni e bevo solo acqua.
Acqua di fonte, di buona fonte.
Ma solo acqua.
Claudio Zucchellini