Le sanzioni economiche sono più vecchie di Cristo, visto che già nel 432 a.C. Pericle, comandante di Atene, le adottò contro la città di Megara, rea di essere troppo vicina alla lega guidata da Sparta. Non c’è quindi da meravigliarsi se, in un mondo globalizzato e frammentato allo stesso tempo, le sanzioni economiche abbiano assunto un ruolo centrale, diventando non solo uno strumento di politica estera, ma anche un’ingerenza sovrana che tratta gli scambi commerciali come plastilina, plasmandoli a piacere. E, come vedremo, non è esagerato considerarle i manganelli della geopolitica. Forse è per questo che vengono criticate… ma anche difese con forza dai Paesi sanzionatori, primi fra tutti gli Stati Uniti.

Le sanzioni sono un “rimedio letale che “non uccide fuori dalla nazione boicottata”, perché uccide solo lì. Fu questa la copertina morale che, nel 1919, il presidente americano Woodrow Wilson stese sulle riserve formulate da più parti sulla necessità del ricorso alle sanzioni economiche per risolvere le dispute internazionali. Ma le copertine lasciano spesso scoperti i piedi, ed è ciò che è successo, e succede ancora oggi, ogni volta che si fa ricorso a questi sistemi sanzionatori che, per quanto sempre più specializzati e mirati, continuano a far registrare scarsi effetti politici e alti costi umanitari.

La prima critica che viene mossa a questi strumenti di politica estera è che non sono democratici. Su questo aspetto, è d’obbligo una precisazione: le sanzioni multilaterali erogate dall’Onu, sono in via di principio democratiche perché rispondono a grammatiche di cooperazione e diritto internazionale e impegnano ogni Nazione… ma lo sono soltanto di facciata perché senza il consenso unitario dei cinque boss del Consiglio di Sicurezza (Usa, Cina, Russia, Regno Unito e Francia) sono soltanto carta straccia, proprio come le Risoluzioni contro Israele, approvate dall’Assemblea Generale e sistematicamente bocciate dal veto Usa nel Consiglio.

Ancor meno democratiche sono le sanzioni unilaterali, adottate in via autonoma dai singoli Stati o da organizzazioni regionali come l’Unione europea, perché si muovono al di fuori delle logiche sovranazionali dell’Onu, tanto da entrare spesso in contrasto con il diritto internazionale.

Questo contributo tratta soltanto delle sanzioni economiche unilaterali, una risorsa alla quale la principale potenza mondiale attinge a piene mani. Cosa attribuisce potere a queste sanzioni che, essendo unilaterali, potrebbero essere ignorate da tutti gli altri Paesi che non costituiscono il bersaglio verso cui sono dirette? La risposta è semplice: il timore di inimicarsi gli Stati Uniti, di essere esclusi dai loro mercati dei capitali e di consumo, di essere tagliati fuori dalle catene del valore tecnologiche.

Ecco come nasce il potere delle sanzioni americane. Negli Stati Uniti, le sanzioni vengono rese esecutive attraverso gli Executives Orders emanati dal Presidente su mandato del Congresso. Il compito di applicarle è affidato all’OFAC, un ufficio del Dipartimento del Tesoro che cura il libro nero delle persone fisiche o giuridiche con le quali è vietato effettuare operazioni commerciali senza specifica autorizzazione. Entrare in questo librone di duemila pagine è facile, uscirne un po’ meno.

Cosa consente agli Stati Uniti la prerogativa extraterritoriale di colpire imprese terze e i Paesi che non obbediscono alle sue sanzioni? Altra risposta facile: il dollaro! Spieghiamo meglio il meccanismo. Le imprese straniere hanno il diritto di non aderire alle sanzioni imposte dagli Usa a carico di aziende e Paesi terzi, ma per effettuare transazioni devono appoggiarsi a banche che, trattando in dollari, sono obbligate ad avere un conto di corrispondenza in una banca americana. Questo significa che un mancato rispetto delle sanzioni americane può comportare che la banca venga “investigata” dall’OFAC, col rischio di vedersi bloccare il conto corrispondenza che la escluderebbe di fatto dal mercato del dollaro, rendendola invisibile sul mercato finanziario. È grazie a questo meccanismo che il dollaro estende la giurisdizione di Washington su quella parte del mondo che fa del dollaro la moneta di riferimento. Facilmente intuibili i malumori verso questo potere, che alimentano le iniziative di de-dollarizzazione. Ma, almeno per il momento, il dollaro tiene!

È chiaro, dunque, come i mercati globali siano percorsi da ingerenze politiche e normative “speciali” che avallano, vietano o limitano determinati scambi. In tutto questo, le sanzioni sono un tassello centrale del mosaico, strumenti che si frappongono tra il simbolismo diplomatico (ritiro degli ambasciatori e delle delegazioni nazionali) e il pragmatismo di azioni coercitive (conflitto armato).

Le sanzioni sono spesso giustificate con l’intento di promuovere la democrazia e i diritti umani, cercando di costringere i governi a modificare comportamenti considerati inaccettabili dalla comunità internazionale, ma alla fine dei conti rimangono degli strumenti non solo poco democratici, ma anche di dubbia efficacia.

A rendere poco democratico questo strumento sanzionatorio non è soltanto l’extraterritorialità della giurisdizione, decisa unilateralmente da Washington, ma anche il rischio di conseguenze non intenzionali, come il rafforzamento del controllo governativo sull’economia o il consolidamento del potere da parte di élite corrotte. Inoltre, è da sottolineare che l’evidenza storica sottolinea che le sanzioni non sempre portano ai risultati desiderati, ma sempre fanno peggiorare le condizioni di vita della popolazione civile senza indurre cambiamenti significativi nei governi bersaglio. La certezza più disumana è proprio questa: colpire i civili non porta alcun vantaggio! Non c’è un solo esempio in cui la devastazione economica di un Paese abbia portato un qualche beneficio a livello politico.

L’uso delle sanzioni economiche, quindi, solleva importanti questioni morali, in particolare a causa del loro impatto sulla popolazione civile. In alcuni casi, esse possono esacerbare la povertà, aumentare le disuguaglianze e portare a crisi umanitarie, senza necessariamente indebolire il regime al potere. L’uso delle sanzioni dovrebbe rispettare il principio di proporzionalità, bilanciando gli obiettivi perseguiti con i danni causati. Le sanzioni devono essere attentamente mirate e progettate per minimizzare l’impatto sui civili. Infliggere sofferenza alla popolazione civile per influenzare un governo costituisce una forma di punizione collettiva, che è moralmente ingiusta.

I Paesi sanzionatori erogano le sanzioni nella speranza che, indebolendo l’economia di uno Stato ostile, questo cessi qualunque presunta ostilità. Questo significa che attraverso la coercizione economica si cerca di raggiungere l’obiettivo di modificare la volontà di un soggetto avversario, alterando il rapporto costi/benefici di una sua scelta politica e costringendolo a scegliere tra cambiare il corso delle proprie azioni o sostenere un costo economico. Ma avviene proprio questo? Nonostante esista una marea di studi sulle sanzioni, nessuno è stato in grado di dimostrarne con certezza l’efficacia, tantomeno attestare se un mutamento politico sia stato causato dalle sanzioni o meno. A dimostrazione di ciò si possono citare i casi di Cuba e Corea del Nord, Paesi che subiscono le sanzioni statunitensi da ormai più di mezzo secolo, senza che ciò abbia modificato nel concreto il loro comportamento.

Le sanzioni economiche sono l’equivalente moderno di un assedio. Gli effetti sia degli assedi che delle sanzioni economiche sono simili: privare i civili dell’accesso ai servizi di base, nonché di cibo e medicine. Negli anni Novanta, l’Iraq fu sottoposto a una miriade di sanzioni internazionali in seguito all’invasione del Kuwait: sanzioni contro farmaci e attrezzature per terapie oncologiche, contro i ricambi per gli impianti di fornitura dell’acqua, contro il cloro necessario per renderla potabile e persino contro i vaccini per le malattie infantili. I governi che bloccarono la fornitura di quei prodotti sostennero che era tutto materiale utilizzabile per lo sviluppo di armi di distruzione di massa!

Ogni stato ha il diritto di definire la propria politica estera, compreso l’uso delle sanzioni, per proteggere i propri interessi nazionali. Tuttavia, questo diritto deve essere bilanciato con la responsabilità di considerare l’impatto delle proprie azioni sul piano internazionale e umanitario. Le istituzioni democratiche devono quindi garantire che le decisioni siano prese in modo responsabile e informato, con un’attenzione particolare agli impatti umanitari e alle considerazioni etiche. I media e le organizzazioni della società civile possono svolgere un ruolo cruciale nel promuovere il dibattito pubblico sulle sanzioni, mettendo in evidenza i potenziali impatti negativi e contribuendo a una maggiore responsabilizzazione dei governi.

Poiché l’efficacia delle sanzioni dipende in particolare dalla collaborazione internazionale e dalla capacità di combinare le sanzioni con altre strategie diplomatiche, è indispensabile spostare il peso politico dalle sanzioni unilaterali a quelle multilaterali, in quanto le prime sono viste come meno legittime, specialmente se percepite come strumenti di coercizione a vantaggio degli interessi nazionali del Paese sanzionatore, e basate su una asimmetria di potere tra nazioni forti e nazioni più deboli. La capacità di un paese forte di imporre sanzioni a un paese più debole solleva questioni sulla sovranità e l’autodeterminazione del paese bersaglio. Alle sanzioni multilaterali, invece, viene riconosciuta una maggiore legittimità internazionale poiché rappresentano un consenso globale piuttosto che l’azione unilaterale di una singola nazione. Ma per dare maggior peso alle sanzioni multilaterali è necessaria una radicale ridefinizione del ruolo e dell’assetto dell’Onu, a cominciare dal superamento dei veti medievali del Consiglio di sicurezza.

C’è soprattutto bisogno di un radicale cambio di mentalità, basato non sulla forza ma sulla responsabilità sociale delle nazioni.

Nel 1996, nel corso del programma televisivo ’60 minutes’, la giornalista statunitense Lesley Stahl intervistò Madeleine Albright, allora ambasciatrice statunitense all’ONU, in merito alle sanzioni all’Iraq. Alla domanda della conduttrice “Abbiamo sentito che sono morti mezzo milione di bambini, più di quanti ne sono morti a Hiroshima. È un prezzo che vale la pena pagare?“, Madeleine Albright rispose, senza battere ciglia: “Penso sia una scelta molto difficile, ma sì, penso che ne valga la pena“. Per oggi è tutto!

Mario Grasso

Mario Grasso

Mario Grasso, laureato in Scienze Sociali, giornalista pubblicista, un passato da manager aziendale e saggista, un presente da scrittore di narrativa

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