È davvero difficile capirci qualcosa. Orientarsi tra decine e decine di sigle, in maggioranza arabe, per lo più mai sentite. Stiamo parlando delle nuove mappe e dei nuovi protagonisti del terrorismo internazionale. Ciclicamente, ormai con una frequenza che definire inquietante è dir poco, assistiamo ad attacchi terroristici che colpiscono indifferentemente l’Occidente e l’Oriente all’interno di strategie che ci sfuggono ma che lasciano ogni volta dietro di sé morti, feriti ed invalidi. Abbiamo provato a districarci nella giungla dei nuovi movimenti terroristici che si muovono a livello mondiale, firmano e/o rivendicano gli attentati, sono diventati attori importanti nella filiera internazionale del narcotraffico per autofinanziarsi.
Speriamo di aiutare anche il lettore a capirne un po’ di più, per orientarsi meglio nelle valutazioni e sui rischi di cosa ci sta scorrendo sotto gli occhi in una drammatica sequenza. Anche per cercare di evitare di essere di nuovo denominati come dei “Sonnambuli” dalle future generazioni che rileggeranno la cronaca di questi complessi anni della terza decade del III millennio.
Proviamo a partire da una riflessione generale: le generazioni nate negli anni ’50 hanno vissuto direttamente il terrorismo negli anni ’70 e ’80, quel terrorismo che aveva un Dna e un territorio di riferimento all’interno dei confini di certi paesi. Noi italiani abbiamo vissuto i tremendi anni blindati della guerra tra lo Stato, le Brigate Rosse, Prima Linea oltre a molte altre sigle sia dell’estremismo di sinistra sia dell’estremismo di destra. I tedeschi hanno vissuto la violenta storia della banda Baader Meinhof, conclusasi con il “suicidio” dei suoi capi deciso… dal governo di Berlino.
Gli spagnoli, tanto per fare un altro esempio, sono stati testimoni del violentissimo scontro tra l’Eta di origine basca e il governo di Madrid con anni caratterizzati da stragi, rappresaglie, sequestri e quant’altro. Uno dei benchmark più terribili di quella stagione europea è stato senz’altro il terrorismo nell’Irlanda del Nord che obbligò il governo di Londra a mandare l’esercito per cercare di pacificare l’Ulster. Ogni stato ha reagito come ha potuto cercando, più o meno, di rispettare le regole dello “stato di diritto” ma nello stesso tempo cercando di combattere con efficacia ed efficienza la lotta armata contro i terroristi.
Soltanto il sacrificio supremo dell’avvocato Fulvio Croce, ammazzato come un cane dalla Brigate Rosse nel portone del suo studio professionale a Torino, permise al nostro Stato di salvaguardare i principi democratici. Di resistere alla forte tentazione di applicare la “legge del taglione” vendicandosi. Si volle invece dare un segnale al terrorismo rappresentato in quel momento dalle Brigate Rosse, che lo Stato non avrebbe abdicato al suo ruolo e nonostante l’assassinio del Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Torino avrebbe tenuto ugualmente un regolare processo ai capi storici del movimento sovversivo italiano. Quando quella terribile situazione si concluse con la vittoria dello Stato, ci siamo un po’ tutti illusi che il rischio fosse terminato salvo, naturalmente, qualche episodio marginale di qualche lupo solitario.
L’11 settembre del 2001 riportò però tutto il mondo nell’angoscia e nella paura di una nuova forma di terrorismo internazionale basata su nuove strategie, nuove risorse e un gran numero di adepti che in nome dell’Islam voleva combattere una guerra contro l’Occidente e i suoi miti “di carta”. L’attentato alle Torri Gemelle segnò una svolta nella storia dell’umanità. Gli equilibri della Guerra Fredda e quelli scaturenti anche dalla fine della Guerra Fredda, erano stati spazzati via dalla tempesta del Jihadismo che aveva imposto a tutti gli stati del mondo una radicale ristrutturazione dei propri servizi segreti e delle forze armate, impreparati al nuovo nemico.
Era necessario comprendere le azioni e le idee di questi nuovi terroristi nemici dell’Occidente, specialmente di quelle formazioni che agivano al di là dei concetti e dei limiti territoriali tipici del periodo precedente. La Jihad globale, immaginata e lanciata da al-Qaeda, aveva stravolto i rituali conosciuti fino a quel momento proprio perché il nuovo terrorismo si era completamente svincolato dal legame con territori specifici. La lotta di al-Qaeda non è mai stata per il Medio Oriente o per il nord Africa, ma per la rivendicazione di un credo religioso in opposizione ad una serie di modelli di vita, tipicamente occidentali, giudicati incompatibili con la vera fede.
Proprio per questo il nuovo terrorismo internazionale ha esteso la propria area operativa a tutto il mondo: non solo come scelta strategica ma come inevitabile corollario ideologico del loro modo di concepire la realtà. Bisognava colpire l’Occidente e terrorizzare i suoi abitanti: andava bene qualsiasi bersaglio fosse immaginato purché l’azione provocasse morte, dolore e paura nel nemico. Si ritrova ancora oggi questa matrice ideologica anche nell’ultimo attentato condotto dall’Isis, alla fine dello scorso mese di marzo di quest’anno, al teatro Crocus di Mosca. Perché, ci siamo chiesti, l’Isis ormai marginalizzata a livello mondiale ha colpito la Russia che, apparentemente, non era più un suo nemico?
Secondo la strategia dei nuovi gruppi terroristici, un bersaglio vale l’altro. Mario Minniti attuale Presidente della Fondazione Med-Or ed ex Ministro degli Interni italiano, stimato in tutto il mondo come uno dei massimi esperti di terrorismo e di migranti, ci ha recentemente spiegato almeno due ragioni che stanno a monte dell’attentato a Mosca.
L’Islamic State aveva bisogna innanzitutto di un atto eclatante nella sua ferocia – ha detto Minniti – per rivendicare la sua identità e riaccendere, insieme alla sua capacità di reclutamento, spinte emulative. La seconda ragione per Minniti risiede nel fatto che Hamas, Hezbollah, gli Houthi e, appunto, l’Islamic State condividono una medesima pratica terroristica ma hanno dimensioni identitarie diverse e in competizione tra loro. Nel momento in cui Hamas, Hezbollah e Houthi si stringono in quella che hanno denominato come “l’asse della resistenza”, quella del “collo di bottiglia” per strozzare il commercio mondiale, ecco allora che l’Islamic State aveva bisogno di ritrovare il centro del palcoscenico mondiale del terrore con un atto eclatante. E la Russia – ha concluso Minniti – era l’obiettivo perfetto.
Oggi siamo di fronte ad una pluralità di sigle, per lo più sconosciute, che agiscono in modo imprevisto e imprevedibile e senza alcuna logica razionale. Di fronte a questa rivoluzione nell’organizzazione del terrorismo internazionale, inizialmente, come dicevamo, i servizi segreti delle potenze occidentali hanno faticato a capire il cambiamento evidenziando per molti anni gravi lacune e inefficienze all’interno proprio dell’attività di intelligence (per tutti vale l’esempio proprio della tragedia dell’11 settembre 2001 sulla quale ci sono ancora una serie di dubbi aperti sulle ragioni di tutte le carenze e delle gravi lacune evidenziate dai servizi di sicurezza americani).
La trasformazione degli apparati di intelligence è stata lunga e non ancora oggi completata; spesso caratterizzata da dissensi all’interno delle organizzazioni sovranazionali tra gli stessi stati membri. Anche le forze armate dei singoli paesi sono state messe in crisi dall’ascesa del terrorismo internazionale di matrice jihadista. Tutti gli eserciti erano ancora strutturati per combattere una guerra tradizionale sul continente europeo contro un nemico organizzato in modo analogo. Il dover affrontare un nemico nuovo come al-Qaeda o come il Daesh ha richiesto un enorme sforzo di modifica delle tattiche di intervento. Occorreva adeguare gli eserciti ad affrontare una lotta che assomigliava più ad una guerriglia sullo scacchiere mondiale.
Risultano fondamentali le esperienze, costate tantissimo a livello di perdite umane, maturate in Afghanistan e in Iraq. Bisognava ripartire praticamente da zero sia nel campo dello spionaggio sia nel campo militare rivoluzionando le teorie e le tattiche per essere pronti ad affrontare un nuovo nemico sfuggente, per lo più clandestino, nella gran parte dei casi abituato professionalmente a dei devastanti “mordi e fuggi” in tutte le capitali del mondo non islamico. La guerra non è vinta ed è tutt’altro che finita. Negli ultimi due anni il mondo è nuovamente cambiato, però. Siamo tornati a confrontarci drammaticamente con dinamiche tradizionali e simmetriche, fatte di contrasti armati tra nazioni: l’Ucraina e il Medio Oriente ne sono i drammatici testimoni quotidiani.
Inquadrato il nuovo contesto in cui si muove il nuovo terrorismo internazionale, proviamo ad entrare nella giungla dei protagonisti. Ci aiuta a decodificare meglio l’attuale contesto internazionale Guido Olimpio, giornalista del Corriere della Sera, specialista di intelligence internazionale. Secondo Olimpio, l’”Asse delle Resistenza”, e cioè del terrorismo, attraversa molti confini ed è cementato dall’opposizione all’Occidente e a Israele. Spesso l’Iran assume il ruolo di protagonista, “burattinaio”: il terrorismo è composto sia da shiiti sia da sunniti ma anche da minoranze allineate su posizioni oltranziste. La Repubblica Islamica gestisce le varie organizzazioni con la Divisione Quds che è un apparato speciale dei Pasdaran, ed è lo strumento militare anche dell’intelligence.
In questo momento sono in prima linea nella crisi medio orientale a Gaza le Brigate al-Qassam di Hamas, al-Quds della Jihad, al-Aqsa di al-Fath e le milizie cresciute nella Cisgiordania da Jenin a Tulkarem. In Libano il protagonista assoluto del terrorismo è Hezbollah, diretto da Teheran e in possesso di un armamento di primordine. A Beirut sono anche operativi dei “fratelli minori” come la Jamaa Islamiya e ad alcune cellule di Hamas. In Iraq operano moltissime fazioni sciite, con partecipazione però anche di caldei e sunniti. I più attivi sono quelli della Resistenza Islamica, un cartello dentro il quale si nascondono alcune formazioni importanti.
La Siria è la seconda piattaforma di attacco dopo l’Iraq. Sul suo territorio agiscono milizie legate al regime siriano e all’Iran. Le Brigate al-Hussein e al-Nujaba nonché i volontari afghani della Fatemiyoun e quelli pakistani del Zanabyoun e i membri del Fronte di Jibril sono i coprotagonisti locali di questa enorme giungla di sigle terroristiche. Spesso interagiscono tra di loro per fare massa critica e compiere attacchi più significativi. Geograficamente sono distanti ma non per questo, sottolinea Guido Olimpio, sono meno pericolosi: stiamo parlando degli Houthi, il gruppo terroristico yemenita sostenuto dall’Iran che è diventato il tragico attore protagonista di tutti gli attentati alle navi che transitano nel Mar Rosso.
Non sono da sottovalutare in quanto riforniti direttamente da Teheran senza limiti di budget. Chiudiamo questo tentativo di portare un po’ di chiarezza almeno geografica e della nomenclatura dei vari gruppi operanti nella zona più calda del mondo, con un breve accenno ad un’altra novità che sta rivoluzionando il mondo delle organizzazioni criminali che operano sul nostro pianeta. Dalle ultime indagini aperte dalle intelligence di diversi paesi, emerge il coinvolgimento di istituzioni della Repubblica Islamica e dei suoi alleati libanesi di Hezbollah nel traffico internazionale di stupefacenti. Non l’oppio che arriva dall’Afghanistan, né il captagon, sintetico, usato dai miliziani jihadisti, ma l’ondata di cocaina che nell’ultimo decennio ha invaso l’Europa.
Interi container, sbarcati nei porti olandesi, belgi, tedeschi e italiani che hanno arricchito la criminalità organizzata, hanno probabilmente contribuito anche a finanziare gli arsenali dei terroristi di tutto il Medio Oriente. E’ al primo punto all’ordine del giorno di tutti i principali servizi di intelligence dei grandi paesi del mondo, non solo gli occidentali, l’apertura di indagini mirate ad investigare sul rischio che le reti logistiche e finanziarie create dai nuovi protagonisti dei mercati della cocaina, siano intrecciate con le attività criminali di gruppi terroristici: “Più che di rischio – ha recentemente dichiarato il procuratore nazionale antimafia italiano Gianni Melillo – parlerei di una gigantesca dimensione criminale nella quale strutture criminali eterogenee per origine, natura e finalità, operano da tempo secondo logiche di progressiva, sempre maggiore integrazione… Le connessioni tra traffico di stupefacenti, riciclaggio e processi di finanziamento del terrorismo sono visibili a varie latitudini: dall’America latina al Medio Oriente, dal Pakistan e Afghanistan ai Balcani, dalla Libia all’Africa occidentale e subsahariana. Così come sono visibili gli effetti di accelerazione dei processi di destabilizzazione politica e sociale di intere aree del pianeta collegati a queste evoluzioni dei fenomeni criminali”.
Le milizie sciite iraniane hanno bisogno di valuta pregiata per armarsi e alimentare le attività illecite internazionali. In cambio offrono appoggio per trasportare droga e denaro attraverso i continenti, grazie ai canali architettati proprio per violare l’embargo e sfuggire alla caccia della Cia e del Mossad. Spargendo cocaina a tonnellate e immettendo miliardi nell’economia legale, l’alleanza fra le mafie mondiali e i vertici del terrorismo internazionale ha una portata eversiva senza precedenti. Che fare di fronte a questo nemico potente dal punto di vista economico e della rete di rapporti internazionali?
Marco Minniti ci offre qualche spunto di riflessione: “In un momento privo di ordine, una nuova Sarajevo è sempre possibile. In un nuovo ordine mondiale che per forza di cose sarà multipolare sarà necessario aumentare la cooperazione e diminuire la competizione. E i due capisaldi della cooperazione non possono che essere la lotta al terrorismo e ai cambiamenti climatici. Il nuovo ordine mondiale non potrà coinvolgere in questa grande battaglia anche i paesi del cosiddetto Global South. Mi riferisco a quei paesi che un tempo chiamavamo “non allineati” e che hanno dato vita alla sigla dei Brics per contare di più nelle nuove geo-mappe che si stanno definendo. Naturalmente perché questo accada è necessario evitare che si compia qualcosa che impedirebbe irrimediabilmente questo processo.” Un’altra Sarajevo, insomma.
La rivista Foreign Policy, già oltre sei anni fa, pubblicò un’inchiesta che rappresentava una grande critica ai paesi occidentali: “La lotta ai canali di finanziamento al terrorismo è fallita” – si diceva nel reportage. “Non si tratta tanto oggi di contrastare i modi con cui si sovvenzionano i terroristi – ha ancora scritto recentemente Peter Naumann, autore dell’inchiesta sul Foreign Policy – si tratta di combattere le reti jihadiste e chiunque vi sia coinvolto. Nel farlo l’esame delle operazioni finanziarie può permettere di avere le giuste informazioni di intelligence”. Insomma, siamo tornati al principio ispiratore dell’attività di indagine del grande e indimenticabile Giovanni Falcone: “Follow the money” per sperare di poter arginare questa minaccia subdola che usa le nostre fragilità per distruggerci.
Dina Porat, accademica dell’università di Tel Aviv ha recentemente scritto che l’errore più grave commesso da Israele prima del 7 ottobre è stato quello di immaginare di poter convivere con Hamas lungo i propri confini. La jihad, secondo la professoressa Porat, resta la maggior minaccia alla sicurezza collettiva dell’intera comunità internazionale a cominciare dai paesi arabi e mussulmani che finora hanno pagato a questi terroristi il più alto prezzo di sangue. Anche noi europei però non dobbiamo abbassare la guardia: la cronaca ci dimostra, troppo spesso, che ci sono tanti terroristi “in sonno” che vivono tranquillamente, alla luce del sole, nei quartieri delle nostre città. Poi improvvisamente, ricevute le istruzioni dalla centrale terroristica di riferimento, si scatenano, sorprendendoci tutti. Oggi la vigilanza non deve voler dire violenza, soprusi, l’instaurazione di una “caccia alle streghe”. Deve però significare un’attenzione da parte di ciascuno di noi superiore a quella usuale.
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