Ci sono casi giudiziali che vanno seguiti passo passo, perché sono autentici turning point che ci permettono di meglio comprendere la realtà che ci circonda, nonché le politiche commerciali, di sviluppo ed etiche delle imprese a cui affidiamo usualmente le nostre preferenze di consumo. Tra i procedimenti di assoluto interesse aperti negli ultimi anni ve ne sono svariati nei confronti delle c.d. big-tech, che sono state chiamate a difendere le loro politiche aziendali in varie giurisdizioni, sia in Europa che oltre-oceano.

Per sopperire allo stra-potere economico dei colossi del web, nel vecchio continente si predilige la strada della regolazione tramite atti normativi, come è ad esempio recentemente avvenuto con i c.d. Digital Service Act e Digital Market Act, Regolamenti Europei – applicabili in tutti gli stati membri – che hanno tra le proprie finalità anche quella di stabilire eque condizioni di accesso al mercato per gli operatori economici.

Negli Stati Uniti invece è stata spesso la giurisprudenza (specie quella antitrust), in assenza di una normativa regolamentare di settore, ad indicare la strada da percorrere ed a porre i paletti necessari affinché il mercato restasse autenticamente concorrenziale, nell’interesse delle aziende e dei consumatori finali. Oltre oceano, pertanto, i leading case assumono ancor più rilevanza che da noi, perché in grado di influenzare grandemente le successive decisioni di istituzioni, autorità ed operatori del settore. Si capisce allora l’importanza del caso – attualmente in corso – e che vede contrapposta Google al Governo Federale degli Stati Uniti (United States v. Google LLC (2020)).

La condotta sotto indagine è la seguente: Google ed Apple hanno stretto un accordo commerciale di esclusiva che prevede che sugli iPhone il motore di ricerca pre-installato di default debba essere quello progettato da Google; nel corso del dibattimento è emerso che il controvalore per l’esclusiva riconosciuto alla azienda di Cupertino è stato pari ad una cifra monstre del 36% dei relativi ricavi. Per dare un’idea del valore economico dell’accordo, si può tenere presente che il New York Times ha rilevato che nel 2021 la Mela ha ricevuto da Google circa 18 miliardi di dollari.

Ad avviso del governo federale americano, un accordo di esclusiva di tal genere è in grado di escludere gli altri produttori di motori di ricerca dal mercato; questi ultimi, infatti, non potrebbero competere con lo stra-potere di Google che è in grado di rinunciare a più di un terzo dei propri guadagni pubblicitari, pur di accaparrarsi l’esclusiva sugli iPhone.

La questione da dirimere nel corso del processo è dunque la seguente: Google detiene una posizione dominante nel mercato delle ricerche online perché è il motore di ricerca più tecnologicamente avanzato o perché usa il suo dirompente potere economico, per escludere illecitamente altre aziende altrettanto competitive? La risposta al quesito di cui sopra è estremamente complessa. Per provare la condotta illecita il governo federale americano dovrà dimostrare inter alia che la ricerca e la pubblicità siano mercati ben circoscritti e definibili, che Google detenga in detti mercati una posizione di dominanza (e quindi al di sopra del 40%) e che detta posizione sia stata mantenuta tramite condotte abusive, scientemente volte ad escludere i competitor dal mercato.

Certo chiunque abbia comprato recentemente uno smartphone ben comprende che essere il motore di ricerca pre-installato sul device permette di avere un indubitabile vantaggio concorrenziale rispetto alle altre società che propongono lo stesso servizio, perché non è affatto scontato che il consumatore “medio”, magari non particolarmente avvezzo all’uso della tecnologia, proceda a scaricare o installare un motore di ricerca diverso sul proprio dispositivo, come invece sembrerebbe sostenere la tesi difensiva.

In conclusione, nel corso del processo verrà accertato se la condotta di Google possa avere comportato una illegittima barriera all’entrata nel mercato per aziende altrettanto competitive, che a causa del contratto di esclusiva Google / Apple potrebbero di fatto essere (state) pretermesse dal settore. Il caso è appassionante e riecheggia un importante precedente americano, nel quale Microsoft alla fine degli anni 90 fu condannata per abuso di posizione dominante avendo posto restrizioni – sia tecniche che legali – ai propri concorrenti nel mercato dei personal computer nonché avendo impossibilitato gli utenti finali a disinstallare Internet Explorer dai loro device.

Dal punto di vista dell’utente/consumatore finale italiano questo caso conferma – una volta in più – che tutto quanto viene veicolato come “gratuito” (le app pre-installate su un cellulare ad esempio), in realtà non lo è e che anzi ha un valore ingente, capace addirittura di determinare quali aziende siano in grado di restare sul mercato (e continuare ad esistere) e quali no. Il procedimento dimostra inoltre che le big tech sono estremamente interessate ai dati dei consumatori finali, vero asset economico di questi nostri tempi tecnologicamente mutevoli, ed ove le contestazioni del governo americano dovessero essere condivise della corte, che i colossi del web sono disposti a investire rilevantissime somme economiche, pur di eliminare i competitor da questo ricco mercato.

Il rischio per le democrazie occidentali – ove il mercato rilevante non sia preservato quanto più concorrenziale possibile – è che diminuiscano in modo preoccupante le aziende in grado di gestire i dati dei cittadini, venendosi a rafforzare ulteriormente l’oligopolio delle big tech che di per sé, se non attentamente regolato, rischia di essere in contrasto con i canoni della libera concorrenza e del pluralismo, principi cardine di tutte le democrazie occidentali moderne.

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