Ci sono persone che amano prendere di mira qualcosa o qualcuno.
Altri, invece, amano prendere la mira e, nel corso degli anni, approfondire o sviluppare
materie di interesse. Mi viene in mente il grande Ivano Fossati. Ricordo, in particolare, una sua intervista poco dopo il suo annuncio di porre fine alla sua carriera di musicista: niente più dischi, niente più concerti. Alla domanda su che cosa avrebbe fatto in futuro ha risposto: “studierò quello che pensavo di sapere”. Ecco, si, questo è un approccio che mi piace molto.

E’ l’approccio di Massimo Chioda

E’ stato un noto e stimato avvocato del Foro di Monza (il sesto per importanza del
nostro Paese). Si è occupato prevalentemente di diritto assicurativo e della responsabilità civile anche in ambito penale. Ha frequentato in lungo e in largo i Tribunali d’Italia e maturato un’esperienza capillare del nostro mondo giudiziario.
Ha rivestito cariche istituzionali di rilievo, per più mandati, nell’ambito dell’Ordine degli Avvocati di Monza, come responsabile di Commissioni, e come Segretario. E’ stato più volte eletto come Delegato ai Congressi Nazionali Forensi. Ha svolto attività di
formazione come relatore a convegni e come docente nella Scuola Forense di cui è
stato altresì membro del Comitato Tecnico Scientifico. In qualità di Coordinatore della Commissione Diritti Umani ha partecipato ad attività internazionali, come il Progetto Imperial Sousse in Tunisia e il Progetto Europeo Tralim sui migranti.

Ha svolto l’attività di Osservatore Internazionale in Turchia

Insieme abbiamo realizzato un evento su “Leggi razziali e Avvocatura” nell’ambito di
un’iniziativa a livello nazionale assunta dal Consiglio Nazionale Forense poi proposto
con successo in vari Fori lombardi. Ha partecipato all’avventura della costituzione dell’Editoriale L’Incontro e su questa testata ha pubblicato una serie di interessanti contributi. Recentemente ha pubblicato il libro “Dalla retorica alla psicologia sociale applicata – L’evoluzione della comunicazione persuasiva nel nuovo corso della politica italiana” per la casa editrice La Bussola. Ha cessato l’attività professionale nel 2022. Trovo il suo percorso molto interessante e quindi ho voluto approfondirlo rivolgendogli
qualche domanda.

Benché il processo civile sia prevalentemente scritto, noi avvocati lavoriamo con le parole e sulle parole: quando e perché hai iniziato a maturare il progetto di un approccio sistematico e scientifico alla comunicazione?

La retorica è nata nell’antica Grecia in ambito giudiziario prima ancora che politico. All’inizio della mia professione, negli anni ’80, mi sono accorto che le tecniche retoriche e argomentative non erano applicate dagli Avvocati sulla base di un retroterra teorico, ma istintivamente. In modo abile, ma istintivo, ancorché di fatto basate sugli insegnamenti classici, in particolare ispirati a Cicerone e Quintiliano. Ho quindi approfondito negli anni ’90 le tematiche della teoria dell’argomentazione e della persuasione in ambito filosofico. Esse erano oggetto di studio con specifici insegnamenti nei corsi di laurea in filosofia. Mi sono iscritto alla facoltà di Filosofia, approdando così agli studi di psicologia cognitiva. Mi sono laureato in filosofia con una tesi sulla cd. “macchina della verità”.

Come ha influito questo approccio sul metodo di conduzione della Tua attività professionale?

Le tecniche persuasive hanno un’efficacia impressionante nei settori della creazione
del consenso politico e della propensione al consumo in ambito commerciale. Hanno,
invece, una portata più limitata nel campo delle decisioni giudiziarie. Gran parte dei
processi decisionali assunti nella vita quotidiana si basano su percorsi fondati su
elaborazioni cognitive semplificate di indizi che consentano deduzioni probabilistiche.
In questo quadro operano anche meccanismi di identità sociale, di categorizzazione o
di stereotipizzazione. La conclusione è che spesso il comportamento dei decisori non
risponde a criteri di razionalità, efficienza o coerenza. Al contrario le decisioni di
natura scientifica e professionale sono assunte in forza di regulæ artis. Per questa
ragione in tali ambiti l’influenza delle metodiche persuasive è senz’altro più contenuta.
Peraltro, anche in ambito giudiziario, nel quale l’interpretazione e l’applicazione delle
norme devono seguire un processo logico-giuridico di natura tecnica, il Giudice può
talvolta essere influenzato dai meccanismi persuasivi individuati dalla psicologia
sociale e cognitiva.

Agli inizi della professione, e quindi molto tempo prima di occuparmi di psicologia
sociale e di persuasione, uno dei primi consigli dati ai giovani colleghi dagli avvocati
anziani era quello di non far comparire in udienza “certi” clienti con una determinata
fisionomia. Nell’arco di centinaia di processi penali verificai empiricamente che tale
suggerimento aveva un fondamento realistico. In sostanza si temeva che il Giudice
fosse condizionato da soggetti che potevano apparire a colpo d’occhio “poco
raccomandabili”. Posso portare un esempio interessante anche nell’ambito della Giustizia Civile. In particolare ricordo i problemi concernenti l’applicazione dell’art. 24 della L. 990/69, cioè la decisione in ordine alla richiesta di una provvisionale a favore delle vittime della strada in stato di bisogno causato dall’incidente. I presupposti del provvedimento erano la presenza di gravi elementi di responsabilità, l’oggettivo stato di bisogno, e il nesso causale con il sinistro. Nei casi di ricorso palesemente infondato, laddove la parte compariva personalmente, manifestando atroce sofferenza, nella stragrande maggioranza dei casi il provvedimento veniva emesso. In assenza dell’impatto emotivo, invece, spesso la norma veniva applicata con il giusto rigore e il ricorso
veniva rigettato.

Potrei citare decine di esempi. Mi viene in mente il tema dell’applicazione del cd.
principio della soccombenza, cioè della condanna – stabilita dalla legge – quale regola
generale della Parte che perde la causa al pagamento delle spese processuali
liquidate a favore della Parte processualmente vittoriosa. Nella mia esperienza per
oltre 20 anni quando a vincere la causa era la Compagnia di Assicurazioni (cioè di
regola la Parte “socialmente più forte”) il Giudice con motivazioni sbrigative
compensava quasi sempre le spese di giudizio. In sostanza, ciascuna Parte pagava il
proprio Avvocato senza alcun ristoro. Quando a vincere la causa era il soggetto “più
debole”, pur in presenza di questioni complesse e controverse, la Compagnia
Assicurativa era sistematicamente condannata al pagamento delle spese. Agli inizi
degli anni Duemila, però, questa tendenza è radicalmente cambiata. È vero che negli
anni recenti le norme in materia di condanna alle spese processuali sono state
ripetutamente rimaneggiate e in sostanza si è via via limitata la facoltà del Giudice di
compensare le spese tra le Parti. La “nuova tendenza”, però, si era manifestata già
molto prima. A mio avviso l’unica spiegazione possibile non è di natura giuridica, ma
di origine sociopolitica. Sotto un certo profilo – lo diciamo insieme sorridendo – come
ha scritto il sociologo Marco Revelli, “la lotta di classe esiste, ma l’hanno vinta i ricchi”.

Secondo Te, le recenti riforme del processo civile come impattano sulle tecniche di comunicazione e argomentazione degli avvocati?

La tendenza espressa dalle ultime riforme in materia di giustizia – riforme che, a mio
avviso, non hanno portato alcuna utilità per gli utenti e per la collettività – è quella di
limitare l’oralità e il contatto tra i cittadini, i difensori e il Giudice. Ancor più rilevante è
che le recenti riforme e le direttive impartite negli Uffici giudiziari abbiano via via di
fatto compresso le attività a garanzia del diritto di difesa. Per esempio sono stati ridotti
i termini processuali perentori a carico delle Parti. Il processo civile è diventato un
reticolo di formalità insidiose. Di recente si è persino limitata normativamente la
lunghezza degli atti con disposizioni la cui lettura farebbe sorridere, se non si trattasse di norme in qualche modo vincolanti. In generale, ritengo che la recente evoluzione e
la stessa trattazione telematica dei processi limitino l’efficacia argomentativa del
difensore e neutralizzino l’interazione sociale sulla base della quale si realizzano gli
scopi della comunicazione.

Qual è stato l’elemento rivelatore più significativo che hai individuato e come influisce sulla Tua percezione del “fuoco incrociato” della comunicazione a cui siamo sottoposti quotidianamente?

Vi sono stati avvenimenti significativi che mi hanno avvicinato allo studio della
persuasione, nonché alle tematiche della comunicazione e della libertà di stampa.
Nel mio libro ho portato l’esempio della campagna elettorale del 2006 nella quale
Berlusconi ha ribaltato le previsioni dei sondaggi (che lo davano grandemente “sotto” il
suo avversario Prodi) grazie soprattutto a meccanismi noti in psicologia sociale nello
studio delle dinamiche ingroup-outgroup, mediante cioè la creazione nei processi
cognitivi di un’identità sociale di gruppo e della contrapposizione ad altro gruppo
identitario (il nemico). Tutto ciò è avvenuto, come in altre campagne, rievocando la
contrapposizione al comunismo, attraverso un sottile percorso dal passato al
presente. Si osservi la cadenza degli slogan lanciati, senza interruzione intermedia,
nel comizio finale di Roma: “Volete voi essere governati da chi è stato complice della
peggiore tirannia che la storia ricordi? Da chi ha avuto come idoli Stalin, Lenin, Mao,
Polpot? Da chi odia tutto ciò in cui credete?”.

Forse può apparire evidente all’esperto di politica che si stesse rievocando un mondo
non più esistente da decenni. Prodi, cioè l’avversario di Berlusconi, all’epoca delle
vicende rievocate era democristiano. Prodi – così come l’area cattolica che lo stava, al
momento, sostenendo – era quindi “avversario” di Polpot, Stalin o Mao. E, a ben
vedere, tali accuse risultavano in realtà “forzate” anche se rivolte a quella parte di
Sinistra storica che sosteneva Prodi. Infatti il PCI fin dal 1973 aveva progressivamente
rotto i rapporti con i Paesi del Socialismo reale. All’epoca della discesa in campo di
Berlusconi gli esponenti del Partito Comunista che avevano tenuto una linea
filosovietica erano perlopiù deceduti da un pezzo e comunque non avevano posizioni di rilievo nella coalizione che sosteneva Prodi. Oso anche dire che non ricordo
sostenitori di Polpot in Italia. Ma ciò che è più interessante è il passaggio retorico rivelatosi vincente dal passato dei “sostenitori di Polpot” al presente con il riferimento a “chi odia tutto ciò in cui credete”.

Parecchi milioni di persone hanno quindi espresso il loro consenso sulla base della
contrapposizione ad un nemico – Prodi – indicato da Berlusconi come colui che
“odiava”, nel 2006, tutto ciò in cui gli Italiani credevano.
Davvero stupefacente… Vi sarebbero esempi anche più illuminanti se si entrasse nell’ambito della ricerca sperimentale. Nel quadro del discorso che stiamo facendo quel che interessa di più è come la contrapposizione ingroup/outgroup abbia un effetto di portata enorme nelle relazioni sociali. In sostanza il “trucchetto” del “noi” e del “loro” colpisce nel segno. La contrapposizione gretta, superficiale e strumentale in un modo o nell’altro alla fine dei fatti paga. È triste ed inquietante, ma è così. Si arriva ad ottenere atteggiamenti e decisioni contrarie alla razionalità e persino all’utilità per il decisore.
Tali fenomeni sono complessi. In ambito pubblicitario le variabili interrelate sono
maggiormente controllabili. In area politica il messaggio persuasivo deve fare i conti
con l’intreccio dei fattori sociopolitici e con il sistema dell’informazione che può, esso
solo, condizionare la formazione del consenso.

Un esempio lampante è dato dalla percezione della criminalità creata dai mass media.
Nella mia esperienza istituzionale ho avuto l’opportunità di esaminare i dati locali e
nazionali dei procedimenti penali in entrata per anno, comparati con gli anni
precedenti. Paradossalmente, in corrispondenza di annualità con cali costanti e
rilevanti nella quasi totalità dei reati, si assisteva ad un allarme sociale quasi
ossessivo innescato da determinati organi di informazione. In annate con aumento del
fenomeno criminale il problema della sicurezza non rientrava nella agenda setting
dell’informazione italiana e, conseguentemente, la collettività aveva una percezione
sottostimata del problema.

Proprio per queste ragioni si è rafforzato il mio interesse ad esaminare il ruolo
dell’informazione televisiva nel veicolare il messaggio persuasivo.
E l’Italia – recentemente risalita dal 58° al 41° posto nel mondo nella classifica della
libertà di stampa (la maggior parte dei paesi europei è collocata ai primi posti) – pare
proprio il contesto ideale per esaminare gli effetti prodotti dall’assenza di una corretta
informazione.
Che dire?
Mala tempora currunt…

Claudio Zucchellini

Claudio Zucchellini

Avvocato, Consigliere della Camera Civile di Monza, attivo in iniziative formative per Avvocati, Università, Scuole e Società Civile.

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