Come ho più volte avuto modo di scrivere, tendo a non prendere posizione su questioni politiche, o su temi particolarmente delicati. Dato che firmo L’Incontro come direttore responsabile, una mia presa di posizione potrebbe essere letta come quella ufficiale del giornale. Invece, caratteristica della nostra testata è proprio quella di favorire “l’incontro” tra opinioni anche profondamente diverse tra loro, dando a tutte la stessa dignità.
E per ogni articolo pubblicato siamo sempre disponibili a pubblicarne un altro, di segno opposto. Importante è che le tesi vengano argomentate, che si rispettino tutte le opinioni e che si evitino attacchi personali. Qui di seguito presentiamo il contributo di Corrado Poli, da alcuni mesi nostro autore e profondo conoscitore dello scacchiere mediorientale. Poli affronta un tema spinoso, il rapporto tra ebraismo e Israele. Ci auguriamo che altri autori o lettori intervengano sull’argomento, per dare vita a un dibattito stimolante e originale
Milo Goj
Molti anni fa, nel 1974, un vecchio rabbino di Novgorod, triste e deluso, mi diceva: “Il nostro popolo per quasi duemila anni non ha imbracciato un’arma né organizzato un esercito”. Ero molto giovane e commentavamo una delle tante guerre e violenze in Terra Santa. Oggi, i sopravvissuti all’Olocausto sono praticamente tutti morti. Sono morti anche buona parte dei loro figli e quelli che rimangono sono già molto anziani. La stragrande maggioranza degli ebrei di oggi sono i nipoti e i pronipoti di coloro che vissero la tragedia della Seconda guerra mondiale e la persecuzione nazi-fascista.
Questo è persino più vero in Israele la cui popolazione è mediamente più giovane che in Europa. Gli israeliani sono cresciuti in un contesto sociale, etnico, politico e geografico molto particolare che poco o nulla ha a che fare con l’occidente. Questo è ancora più vero se parliamo di coloro provenienti da quell’area geopolitica dei grandi imperi – tedesco, austro-ungarico, russo e ottomano – in cui costituivano una componente rilevante della popolazione. Da quelle regioni emigrarono milioni di ebrei alla volta degli Stati Uniti a cominciare dall’Ottocento e, pur subendo le discriminazioni dei nuovi arrivati, lentamente si affermarono nella società americana più o meno contemporaneamente agli italiani e poco dopo gli irlandesi. Quella cultura ebraica, dopo la persecuzione nazista, è pressoché scomparsa in Europa e sopravvive profondamente trasformata in Nordamerica.
Nessun popolo è oggi più lontano degli israeliani dalla cultura ebraica. Gli israeliani non sono più ebrei per cultura e tanto meno per religione. Avendo assimilato il processo di secolarizzazione delle società occidentali, buona parte non sono credenti e il loro essere ebrei è un fatto tradizionale e soprattutto etnico, per non dire razziale considerato il modo in cui si stabilisce l’ebraicità degli aventi diritto alla cittadinanza e all’immigrazione. Forse che si discute l’acquisizione della cittadinanza israeliana degli immigrati negli stessi termini in cui si fa in Europa? Naturalmente, ci sono ancora numerosi ebrei in Israele e nel mondo che praticano una profonda religiosità e spiritubalità al pari dei seguaci di altre religioni con cui interloquiscono virtuosamente. Poi ci sono i fanatici religiosi del giudaismo. Ma il fanatismo religioso è quanto di più lontano esista dalla sensibilità religiosa (vale per tutte le religioni). La religione – quella seria – si fonda sulla cultura, la continua interpretazione (esegesi) delle scritture e l’adattamento alle condizioni contemporanee. Questo è l’opposto del fanatismo che si appiglia ai riti esteriori e ad antichi precetti fuori dalla realtà che si prestano a diventare pretesti per giustificare ogni opportunismo.
Gli israeliani hanno cancellato completamente la cultura ebraica ispirata alla pace e alla convivenza nonché all’essere un popolo senza Stato e senza territorio. Gli ebrei, soprattutto gli ashkenaziti erano prevalentemente artigiani e commercianti urbani. Altri erano ‘erranti’, suonatori e saltimbanchi agli angoli delle strade, ferrivecchi, spazzacamini e complessivamente molto poveri, con qualche eccezione. Non mancavano i malandrini che vivevano di espedienti. Buona parte degli ebrei poveri, se non erano proprio nomadi, poco ci mancava e il loro stile di vita, agli occhi dei gentili, non si distingueva un granché da quello degli zingari. Sicaratterizzavano per la diversa religione che contribuiva a identificarli – talora discriminarli – e tenerli uniti come comunità.
Erano disprezzati ed emarginati? Purtroppo, è stato così, come lo fu per gli zingari e le minoranze povere di tutte le etnie minoritarie indistintamente. Gli ebrei, al pari di zingari e altri popoli senza territorio o fuori dal proprio, erano utili e integrati nelle società grazie alle funzioni svolte e alla naturale tendenza umana a relazionarsi con il prossimo pacificamente, generosamente e con curiosità. Solo di tanto in tanto i Gentili, a seguito di qualche crisi o giochi di potere, ricordavano agli ebrei la colpa collettiva di avere ucciso nientemeno che Gesù Cristo. Da quando s’è costituito lo Stato di Israele, i cristiani sionisti hanno cominciato ad attribuire piuttosto la colpa del deicidio ai romani. Lo si può notare in numerosi film di Hollywood i primi dei quali furono “I Dieci Comandamenti” e “Ben Hur” il cui protagonista, Charlton Heston, divenne uno dei maggiori sostenitori della NRA, l’associazione dei sostenitori della libera vendita delle armi, nonché un convinto conservatore cristiano o, come direbbe Mearsheimer, un cristiano sionista.
In occidente – che non comprendeva allora la Germania e l’Austria-Ungheria, tanto meno la Russia e i Balcani – dall’Ottocento in poi, in seguito all’affermarsi della secolarizzazione, della borghesia e dei diritti universali della persona, alcuni ebrei si dedicarono alle professioni liberali, alla politica e all’industria; alcuni divennero benestanti e pochi ricchissimi. Meglio di altre etnie, si integrarono brillantemente nel nuovo mondo borghese. L’ebraismo fu ridotto a rito vuoto, tradizione e distinzione, ma la vera religione divenne per tutti quella condivisa della modernizzazione e del capitalismo.
Fino alla Seconda guerra mondiale, le comunità ebraiche povere della Mittel-Europa e dell’est europeo convivevano in vivaci città multietniche. Lodz, Könisberg, Leopoli e altre città, passate ripetutamente dalla Germania alla Russia, alla Polonia, all’Austria-Ungheria, erano abitate da una popolazione spesso equamente divisa tra tedeschi (di varie regioni), polacchi, ebrei, russi e un misto di altre popolazioni, tra cui ucraini, zingari, ungheresi, turchi (di varie regioni), tatari e chissà quanti altri mai. Di tanto in tanto nasceva qualche conflitto e discriminazione, ma forse varrebbe la pena riscrivere la storia soffermandosi sulla millenaria coabitazione, tolleranza e collaborazione, piuttosto che quella degli occasionali conflitti tra diversi gruppi etnici descritti in modo esemplare da Ivo Andrić nel suo libro “Il ponte sulla Drina” o da Isaac Singer ne “Il mago di Lublino”
Nemmeno si può ridurre tutto a un generico antisemitismo e antisionismo. Questi termini sono usati in modo pretestuoso. I pregiudizi sugli ebrei esposti nel Mercante di Venezia (in cui Shakespeare riporta sia stereotipi negativi, sia una integrazione di fatto tra le due comunità) non hanno molto a che fare con l’antisemitismo (un termine specifico coniato alla fine del Settecento)sviluppatosi nell’Ottocento e conclusosi nella metà del Novecento. Il presunto antisemitismo di oggi (sempre che si possa ancora parlare di antisemitismo) è a sua volta completamente diverso da quello di quasi un secolo fa. Lo è anche il sionismo, una dottrina dello Stato modernista nata un secolo e mezzo fa che male si adatta alla globalizzazione delle relazioni e alla tradizione ebraica.
In conclusione, agli storici e agli studiosi di dottrina della Stato spetterebbe il compito di proporre interpretazioni utili ad affrontare i temi attuali. Agli studiosi spetterebbe il compito di elaborare idee diverse da quelle ormai logorate dagli anni, dai decenni, dai secoli e che oggi non contribuiscono a risolvere i problemi. Non è facile poiché la crisi culturale dell’occidente si manifesta anche con il conformismo delle accademie e della cultura asservite ai governi, anzi a gruppi di potere che li controllano. Ma chi si prende il coraggioso impegno di rinunciare a interpretazioni sclerotizzate per una visione virtuosa e nuova del mondo futuro? Se solo si solleva la necessità di studiare e ripensare la storia e la politica, come in questo articolo, si rischia che qualche imbecille ti dia del nazista, che non sappia distinguere l’antisionismo dall’antisemitismo, gli ebrei dagli israeliani… e cerchi di buttare in rissa – per paura – ogni apertura al ragionamento.