Nella fogna degli odiatori della tastiera sui social network ogni tanto si può anche scoprire un fiore. La tragedia della povera Giulia ha scatenato un putiferio nella Rete con un gran numero di carnefici ma anche qualche innamorata dell’assassino (oltre 100 post di ragazze su Instagram che dichiarano il loro amore per Filippo!). In questo uragano di pianti, odio, auspici di vendetta, ho trovato però anche due “rose”, due contributi che si possono ovviamente condividere o meno ma che toccano due aspetti di questo ennesimo femminicidio non proprio scontati e comunque non sempre approfonditi nella giusta maniera. Li riporto così come li ho scoperti in Rete: il primo, Alessandro, che su Facebook ha espresso sentimenti ed emozioni non così banali; il secondo scritto da Mattia Feltri nella sua rubrica quotidiana su La Stampa di Torino dal titolo “Buongiorno”.
Inizio a trascrivervi il testo della lettera aperta di Alessandro: “Fratello, in questo momento immagino sia difficile. Qualcosa è morto fuori, ma forse, qualcosa, era morto dentro già da tempo. Alle volte c’è un mostro incontrollabile che vive dentro ciascuno di noi e qualcuno, forse i più vulnerabili, lo manifestano con gesti estremi: Uccidere donne, uomini e bambini, drogarsi e alcolizzarsi, morire in incidenti stradali, abbandonarsi alla vita di strada, suicidarsi. Quei mostri vivono dentro ma possono essere ascoltati prima che sfuggano dalla cura del cuore. Possono essere ascoltati e permettergli di esprimersi in una forma costruttiva e non distruttiva. Fratello, tante persone vorrebbero linciarti, e incarcerarci lasciandoti da solo nella tua agonia interiore. Io e tanti altri uomini, ne sono certo, NO! Saremmo felici di incontrare te e tanti altri fratelli sofferenti con la nostra medicina. No, non si tratta né di carcere né di psicofarmaci. Si tratta semplicemente della medicina del cerchio”
Ed ecco il contenuto del “Buongiorno” di Mattia Feltri: “Ho letto o sentito molti scrittori, commentatori o miei evoluti amici, spesso di destra ma non sempre, ribellarsi all’idea di portare una quota di colpa, per essere maschi, nell’assassinio di Giulia Cecchettin. Né dunque di portarne per qualsiasi altro femminicidio: io, dicono, nulla c’entro con un criminale farabutto, non ho mai mollato un ceffone a una donna, mai le ho detto di stare zitta, credo nella parità e la pratico ogni santo giorno. E poi, aggiunge qualcuno, estendere la responsabilità a tutti i maschi rischia di relativizzare quella dell’assassino. Non è un dibattito banale e viene da lontano. Penso di non sbagliare se attribuisco l’origine del concetto di “responsabilità collettiva” a Hannah Arendt. Naturalmente lei si riferiva alla Shoah, ma l’ha formulato in modo che fosse applicabile in altri casi e altri tempi. C’è profonda differenza fra “colpa individuale” e “responsabilità collettiva”. La colpa è per forza individuale e individuali le conseguenze, soprattutto penali. Ma la “responsabilità collettiva” è politica, e ognuno deve assumersela, anche per quello che non ha fatto, per la semplice ragione di appartenere a un gruppo o a una società. E cioè – la rilettura è mia – sono sicuro di essere irreprensibile? Non ho mai discriminato una donna? Non ho mai pronunciato battute da caserma? O ridacchiato a battute altrui? Non ho mai formulato commenti sessisti? E se a tutte queste domande la risposta è mai, quanto ho fatto perché gli altri la piantassero, o perché le cose andassero meglio? Questa è la responsabilità collettiva, e se non c’è, non c’è collettività (o, se preferite, nazione).
Come dicevo, al di là della condivisione o meno della riflessioni dei due autori, i temi sollevati, mi auguro, possano sollevare discussioni, confronti, dibattiti su aspetti di un fenomeno che ha ormai assunto dimensioni intollerabili. Ho già avuto modo di scriverlo diverse volte su questa testata: il tema, a mio parere, deve essere affrontato su diversi piani: l’importante è che lo si faccia subito e con la giusta determinazione e volontà. Il primo profilo è culturale ed educativo. Dobbiamo tutti noi esseri umani, certo a maggior ragione noi uomini, immaginare uno scarto di qualità nei nostri atteggiamenti, nelle nostre condotte. Abbiamo tutti, uomini e donne, accettato con troppa superficialità delle condotte inammissibili in una società che si proclama civile, moderna e democratica. Dobbiamo tutti, indistintamente, uomini e donne, mettere un’attenzione particolare ai nostri comportamenti nelle relazioni tra i generi: viviamo un’emergenza in cui ci vuole un maggior rigore, una maggiore autodisciplina, una minore accettabilità di battute, commenti, gestualità, forse un tempo anche permessi, ma oggi non più possibili. I risultati si vedranno nel tempo e non possiamo pretendere che arrivino subito.
Un secondo profilo riguarda invece le famiglie, i parenti, gli amici, i maestri e i professori delle scuole: tutti devono essere più attenti alle reazioni emotive e psicologiche dei nostri giovani, dei nostri adolescenti, dei nostri ragazzi. Troppe volte molti di noi di fronte alle classiche sofferenze amorose tipiche dell’adolescenza, hanno archiviato il pianto dei propri figli con una battuta superficiale e leggera, tendente ad archiviare lo stato d’animo del proprio ragazzo, senza dargli troppa importanza. Le parole del padre di Filippo Turetta ci devono avvertire che la sorveglianza e l’ascolto sono fondamentali per percepire in anticipo eventuali segnali di disagio, di dolore, di rabbia di ragazzi, apparentemente ben educati e normali, che potrebbero arrivare a compiere gesti inconsulti come quelli di Filippo.
Il terzo profilo è quello della prevenzione di cui si parla tanto ma si fa troppo poco. Non possiamo limitarci ad una propaganda che attraverso strumenti tecnologici come i braccialetti elettronici o dei sistemi di allarme, immagina la soluzione del problema: basta schiacciare un bottone o sentire un allarme per far scattare una immediata reazione delle forze dell’ordine mirata a prevenire la commissione di reati ai danni delle vittime di turno. Perché non basta? Perché se quando lo strumento tecnologico dà un segnale di pericolo e le forze dell’ordine non hanno le risorse umane per intervenire, tutto diventa inutile. La vittima viene abbandonata al suo destino senza supportarla nel momento chiave in cui avrebbe bisogno di proteggere la sua incolumità. Come abbiamo scritto diverse volte, se il fenomeno del femminicidio ha assunto delle proporzioni numeriche inaccettabili, bisogna allora che il governo di un Paese come il nostro lo consideri una priorità, mettendo sul tavolo le risorse economiche per prevenirlo, gestendolo in maniera efficiente ed adeguata. I soldi non ci sono o sono troppo pochi? Li si recupera da altre voci di spesa! Se questa è una priorità per la nostra coesione pacifica, ci devono essere dei rimedi per trovare le risorse economiche necessarie per arginare il fenomeno.
E’ inutile istituire i centri di assistenza per le donne oggetto di violenza se poi non si supportano finanziariamente i volontari che si dedicano a tale complessa e fondamentale attività. E’ inutile emanare delle norme con delle nuove procedure di urgenza all’interno dei tribunali se poi i magistrati o gli uffici giudiziari non sono in numero sufficiente per poter gestire i casi denunciati. E’ inutile pretendere e richiedere che le donne vittime dei primi segnali di violenza psicologica o fisica denuncino l’accaduto, se poi, quando queste povere disgraziate si presentano ai posti di polizia o alle stazioni dei carabinieri, si sentono spesso dire “Signora, faremo il possibile ma siamo in pochi e non riusciamo a coprire tutte le necessità che ci piovono addosso!”. Bisogna che il Governo e auspicabilmente tutto il Parlamento condividano un immediato piano di investimenti per aiutare le forze dell’ordine e gli uffici giudiziari dei tribunali in modo tale da mettersi in condizione di offrire, in sede di prevenzione, una vera assistenza e un reale supporto alle povere vittime indifese di una violenza barbara.
Ultima riflessione: non abbiamo bisogno di sentenze esemplari, abbiamo bisogno che le sentenze di condanna per i massacratori delle donne siano semplicemente eseguite come previsto da una sentenza originata da un processo in cui siano state rispettate tutte le tutele anche per quell’imputato “odioso”. L’esecutività della pena rappresenta un fondamento del nostro sistema giudiziario, anche e soprattutto per evitare che le vittime di un reato, vedendo che in realtà il colpevole, seppure accertato da una sentenza, se ne infischia della condanna e gira liberamente per le strade e questo gli viene permesso dall’ordinamento, alla lunga, pensino di farsi giustizia da sole, decretando in tal modo il fallimento di una giustizia giusta e il ritorno alle barbarie della vendetta personale.