Tra le non poche e gravi zavorre che nel nostro belpaese condizionano il dibattito politico e gli atteggiamenti dell’opinione pubblica, va sicuramente annoverato il deficit di cultura economica e finanziaria. Come ha scritto molto bene Elsa Fornero su La Stampa del 21 agosto scorso, “c’è una riforma che costerebbe poco e interessa tutti i cittadini – giovani e anziani, donne e uomini, settentrionali e meridionali. Si tratta dell’introduzione a scuola, a partire dalle elementari, e altrove, di corsi di educazione economico-finanziaria di base, in modo da insegnare correttamente l’abc dell’economia e della finanza, materie con le quali tutti abbiamo quotidianamente a che fare, molti di noi senza averne la necessaria minima cognizione”. Tra l’altro, lo stesso articolo ricorda che al riguardo sono ferme in Parlamento quattro proposte di legge che non riescono ad aggregare il necessario consenso.
Non si intende qui discettare sulle radici più o meno antiche del problema né sui provvedimenti che i nostri distratti soggetti politici potrebbero assumere per provare almeno a ridimensionarlo. Invece, si vuole suggerire una modestissima proposta (a costo zero e molto semplice da adottare) che, ove trovasse accoglienza e seguito, potrebbe rivelarsi molto efficace per debellare tanti equivoci che continuano a persistere e ad intossicare messaggi, opinioni e convinzioni. La proposta potrebbe intitolarsi “Chiamiamo le cose con il loro nome”. Sta a significare che troppo spesso il linguaggio economico, anche per colpa degli addetti ai lavori, utilizza termini ambigui o addirittura devianti, nel senso che spingono i pensieri in direzioni sbagliate e pericolose. Di seguito quattro esempi di come un diverso vocabolario potrebbe aiutare.
Debito pubblico
È inutile ricordare come il debito pubblico italiano continui a veleggiare su livelli del tutto disallineati rispetto alla media dei paesi sviluppati (con eccezione del Giappone) e agli standard fissati dalla comunità europea. Ogni italiano, neonati compresi, ha sulle spalle un debito di quasi 49.000 euro, a fronte di un PIL pro-capite di circa 31.000 euro. Come se ognuno di noi avesse un mutuo da rimborsare pari a 1,6 volte il suo guadagno annuale.
Non a caso i conti pubblici italiani sono messi costantemente sotto osservazione dal mercato internazionale dei capitali e il debito costa più che a tutti gli altri paesi europei, compresa la già disastrata Grecia. La conseguenza è che sul nostro PIL gli interessi sul debito pesano per circa il 4%. Come è ben noto a chiunque ci sia passato nella vita, situazioni di elevato indebitamento tolgono respiro, nel senso che impongono sacrifici nell’immediato e impediscono di investire in vista del futuro. Ma tutto questo non sembra corrispondere allo stato d’animo del paese, che invece dà la costante sensazione di trovarsi a suo agio nello sguazzare in un debito oceanico, e anzi tende a manifestare irritazione nei confronti di chi lo richiama a comportamenti più ragionevoli.
Non solo, ma di recente l’emissione di un nuovo titolo di stato, il cosiddetto BTP valore, offerto a condizioni altamente remunerative, è stato salutato come uno straordinario successo. In altri termini, il paese ha manifestato grande giubilo per aumentare ulteriormente il proprio debito collettivo e i non irrilevanti interessi che graveranno sui redditi futuri. Dietro a un tale fenomeno, che ad un osservatore straniero potrebbe risultare di difficile comprensione, stanno due circostanze. In primo luogo, gli ingenti risparmi che gli italiani hanno accumulato negli anni, spesso sottraendo alla cassa comune quanto avrebbero dovuto lasciarvi pagando le tasse dovute (ma su questo torneremo più avanti).
In secondo luogo, la considerazione del debito pubblico come un impegno di qualcun altro, quasi che lo Stato fosse una entità distinta dai cittadini che ne fanno parte. È banale ricordare che il debito rappresenta sempre una somma di denaro che a certe condizioni va remunerata e a determinate scadenze va ripagata, e che l’impegno che vi corrisponde grava sempre sulle spalle di qualche soggetto in carne ed ossa che sarà chiamato a onorarlo. Nella fattispecie, tale soggetto è facilmente identificabile, ma ha una grave debolezza: non ha voce per manifestare il proprio più che probabile dissenso. Si tratta delle future generazioni, cioè dei nostri figli e nipoti, ai quali attraverso il debito stiamo semplicemente togliendo il futuro. Per di più, innescando un circolo vizioso grave e pericoloso, determinato dalla denatalità. In pratica, stiamo scaricando più debiti su un minor numero di spalle. In definitiva, la prima proposta consiste nel bandire il termine debito pubblico e sostituirlo con “impegni a carico delle future generazioni”. In questo modo, forse risulterebbe più difficile sbandierare come un successo l’essere riusciti ad allargare il deficit di bilancio e correre a sottoscrivere nuovi titoli di debito!
Tasse
In mezzo al continuo e assordante frastuono delle discussioni politiche, c’è un tema su cui la stragrande maggioranza delle forze in campo manifesta un obiettivo condiviso: la riduzione delle tasse. È facilmente spiegabile: chi dichiarasse di voler incrementare il prelievo fiscale a carico di chicchessia avrebbe la certezza di perdere consenso e quindi voti. Perché esistono le tasse? Ovvio: per sostenere il peso economico di attività che si ritengono indispensabili al vivere comune. Le tasse sono perciò il contributo che ogni membro di una comunità paga nell’interesse di tutti, cioè per assicurare la soddisfazione di interessi collettivi. Ne consegue che l’entità delle tasse non è una variabile indipendente, ma discende da quanto si ritiene debba essere fatto per garantire le attività di cui sopra. Come ebbe a dire Tommaso Padoa-Schioppa, “le tasse sono una cosa bellissima, in quanto il modo più civile per contribuire a servizi indispensabili”.
Porsi l’obiettivo di ridurle non può significare che due cose: primo, che è eccessivo il costo dei servizi resi in cambio delle tasse pagate (in altri termini, le tasse in parte alimentano sprechi); secondo, che è eccessivo il ventaglio dei servizi resi, cioè esistono servizi che lo stato potrebbe smettere di fornire. Sul primo punto si tornerà più avanti, quando esamineremo la voce “sprechi”. In merito al secondo, invece, appare tristemente umoristico che l’intento di ridurre il carico fiscale non venga mai accompagnato da indicazioni di merito che diano evidenza di quali servizi si ritiene di poter comprimere. Anche perché, in contemporanea allo slogan “meno tasse per tutti” i soggetti in gioco fanno a gara per elencare chi (quali categorie, quali ambiti di attività, quali aree geografiche, ecc.) dovrebbe ricevere di più (attraverso maggiori stanziamenti, sgravi, agevolazioni, e così via).
Come dovrebbe essere chiaro, pretendere che le tasse diminuiscano senza indicare quali spese ridurre equivale ad affermare implicitamente che la soluzione sta nell’aumento dell’indebitamento, ciò che ci rimanda al punto precedente. Uno spettacolo che ricorda una rappresentazione del teatro dell’assurdo, alla Ionesco. Di qui la seconda proposta: sostituire la parola “tasse” con l’allocuzione “contributi al bene comune”. Forse risulterebbe più imbarazzante inneggiare alla riduzione del carico fiscale come obiettivo prioritario da parte di forze, come i partiti politici, che proprio nel perseguimento del bene comune dovrebbero trovare la loro ragion d’essere.
Sprechi
Come accennato in precedenza, la riduzione del carico fiscale potrebbe anche essere giustificata dalla motivazione di rendere più efficiente la spesa pubblica, eliminando sprechi determinati da attività improduttive o costi eccedenti. Una prospettiva più che condivisibile: chi mai potrebbe essere contrario a eliminare spese risparmiabili senza minare la qualità o l’efficacia di un servizio?
Purtroppo, le cose non sono così semplici, come risulta chiaro dal fatto che tutte le numerose iniziative di spending review avviate a più riprese non hanno prodotto alcun risultato apprezzabile. Eppure, è innegabile che gli spazi di recupero di spesa pubblica siano di dimensioni semplicemente immense, come dimostra l’esperienza di chiunque (come è capitato anche a chi scrive) ha avuto modo di cimentarsi con la gestione della spesa pubblica. Il nodo del problema è del tutto banale: ogni spreco corrisponde a un reddito! In altre parole, ogni euro che esce dalle casse pubbliche entra nelle tasche di qualche soggetto che dispone di un titolo per accedere a quella entrata. Ma mentre è facile condividere il principio che ogni spreco va eliminato, nessuno ha voglia di guardare la stessa medaglia dall’altro lato, essendo molto meno facile colpire il reddito che quello spreco genera.
Nella pubblica amministrazione l’efficienza non è mai stata coltivata con strumenti adeguati (basta pensare alla atavica assenza di sistemi di controllo di gestione o di analisi costi/benefici), con la conseguenza di lasciare praterie sconfinate a comportamenti e decisioni che hanno favorito la creazione e il consolidamento di ingenti rendite di natura clientelare. Di qui la terza proposta: sostituire alla parola “sprechi” il termine “redditi ingiustificati”. Con questo titolo, forse si potrebbe aprire qualche spiraglio in più per dare vita a piani di spending review meno soggetti al rischio di finire dimenticati in qualche cassetto.
Evasione fiscale
Come tutte le stime statistiche dimostrano, e come può confermare l’esperienza quotidiana di chiunque voglia prestare attenzione al fenomeno, l’evasione fiscale è uno sport molto praticato nel Belpaese. Se accolto tra le discipline olimpiche, arricchirebbe sicuramente il nostro medagliere. Ma anche in questo caso non può sorprendere la timidezza, spesso attigua alla complicità, con cui la politica vi si confronta: se gli evasori sono una platea molto ampia, contrastarne con determinazione il vizio non può non comportare un costo elevato in termini di perdita di consenso.
D’altra parte, non ci si può sorprendere che questo accada, a fronte di una pubblica amministrazione vissuta come un soggetto terzo insieme avido e inefficiente, salvo apprezzarla quando, trovandosi ad averne bisogno, la si scopre ricca di capacità e di valori. In attesa che una più incisiva educazione civica innestata nelle scuole di ogni ordine e grado alimenti la formazione di radici culturali più robuste, un passo per tentare di alleviare la malattia potrebbe consistere in una quarta proposta: sostituire il termine “evasione fiscale” con “appropriazione indebita a danno del bene comune”. Con l’auspicio che serva a fare crescere un po’ più di vergogna in chi se ne approfitta a danno degli altri appartenenti alla sua stessa comunità.
Giorgio Donna