Dopo i coccodrilli, le “santificazioni”, le polemiche inopportune o ineleganti, cosa rimane del lascito del Cavaliere? Ovviamente non ci riferiamo all’eredità e al suo patrimonio: un tema che sta riguardando gli eredi e i beneficiari. Ci vogliamo occupare del resto: del lascito politico, imprenditoriale, culturale. Per molti, il Cavaliere, ci lascia una stagione politica memorabile: per altri una stagione di segno esattamente opposto. Sicuramente gli viene riconosciuto, direi quasi all’unanimità, un talento imprenditoriale unico che lo equipara ad altri, non moltissimi per la verità, grandi capitani di industria del nostro Paese, nel dopoguerra. Vorrei inserirmi in questo dibattito con alcune riflessioni, mi auguro, non contaminate dallo stomaco o dalla diversa valutazione che ho avuto sulla figura di Silvio Berlusconi.
Siamo sicuramente di fronte ad un talento: ad un essere umano che per questioni genetiche o educazionali era in possesso di alcune caratteristiche non ordinarie. Proprio la parabola dei talenti mi induce, però, a non limitarmi all’elogio-constatazione delle sue doti e dei suoi successi, ma mi impone di andare oltre: di pormi il tema affrontato proprio nella parabola citata nei Vangeli, quello della maggior responsabilità che ricade sulle spalle del fortunato o predestinato essere umano talentuoso rispetto agli altri suoi consimili, rispetto alla sua comunità di appartenenza, rispetto alla società nella quale ha vissuto.
Ritengo che il bilancio dell’attività privata, imprenditoriale, di Berlusconi, presenti un saldo molto diverso dal bilancio delle attività pubbliche rese alla nazione dal Cavaliere. Nel primo caso, Berlusconi ha dato il meglio di sé stesso, dimostrandosi un autentico asso prima nel mondo dell’edilizia e poi nell’universo delle nuove televisioni commerciali della fine del secolo scorso. Nelle sue attività pubbliche, invece, Berlusconi non ha valorizzato il suo talento fino in fondo. Non ha restituito alla sua comunità il talento che gli era stato donato: “è sceso in campo”, ha deciso di far politica, al di là delle ragioni che lo hanno spinto a questa scelta comunque coraggiosa, ha avuto nelle sue mani un potere rilevante che però non ha sfruttato per riformare davvero il nostro zoppicante Paese.
E vorrei concentrarmi proprio sul Berlusconi pubblico, quello che ha indubbiamente caratterizzato la storia dell’Italia negli ultimi trent’anni. Per sua stessa scelta, si dichiarò pronto alla grande sfida: riformare il Paese attraverso una pacifica e virtuosa Rivoluzione Liberale di stampo quasi gobettiano. Sui giornali di questi giorni è in corso un appassionato confronto proprio sull’eredità politica lasciata dal Cavaliere. Ernesto Galli Della Loggia, sul Corriere della Sera, pur riconoscendo le doti di Berlusconi, gli ha sostanzialmente rimproverato una sostanziale “inerzia decisionale” , che ha caratterizzato i governi da lui guidati. Gli ha risposto immediatamente, con toni garbati, l’attuale reggente di Forza Italia, Antonio Tajani.
Tajani ha sottolineato come la tesi di Galli Della Loggia non sia corretta essendo stato Berlusconi il promotore di almeno 36 grandi riforme di sistema varate dai suoi governi: dalle grandi infrastrutture, come l’Alta Velocità, alla riduzione della pressione fiscale; dai grandi investimenti nel Mezzogiorno, nella digitalizzazione della P.A., nell’efficacia del contrasto alla criminalità mafiosa; alla straordinaria politica estera. La valutazione dunque sull’operato del Cavaliere lascia adito ad interpretazioni diverse, a volte opposte. Mi interessa, in questa sede, evidenziare un punto, in particolare, che mi lascia perplesso con riguardo alle attività di governo svolte da Berlusconi: la riforma della P.A… o meglio, la mancata riforma della Pubblica Amministrazione. Credo fermamente che il Cavaliere, con le maggioranze parlamentari che si è ritrovato, per suoi meriti sia nel 2001, sia nel 2008, avrebbe potuto veramente incidere su quelle che sono le storiche criticità del nostro Paese e mi riferisco soprattutto ai deficit che presenta tutta l’organizzazione della Pubblica Amministrazione.
Certo, ci sarebbe voluto coraggio, un coraggio necessario e speciale per resistere e controbattere le pressioni delle lobby e delle corporazioni che tutelano i diritti acquisiti dalla nostra P.A. Oggi, tutti noi italiani, paghiamo ancora l’immane costo di quella mancata rivoluzione: promessa ma non attuata! Siamo rimasti imprigionati, sempre in modo più rigido e stringente, in una spirale negativa che ha portato il Paese allo stallo, alla non crescita negli ultimi 30 anni! Alla impossibilità di rimettere le mani sul modello dell’organizzazione della Pubblica Amministrazione esistente, rifondandolo dal basso e in modo sostanziale, puntando al merito, alla sua modernizzazione anche culturale.
Guardiamoci intorno, tutta la melassa burocratica italiana sta impedendo anche a quegli spiriti liberi e vogliosi di impegnarsi al rilancio del Paese a rimanere bloccati, vittime di lacci e lacciuoli insopportabili e a volte addirittura illegittimi. Bastano alcuni esempi per dimostrare questo sfascio che ci circonda: il governo Meloni ha prontamente deliberato l’erogazione di consistenti aiuti per i cittadini abitanti delle zone disastrate dall’ultima alluvione. Ebbene, ad oltre un mese dalla tragedia, gli emiliani e i romagnoli non hanno ancora visto un euro e hanno dovuto ripartire senza alcun aiuto dalle istituzioni pubbliche.
E ancora: rischiamo, a causa di una Pubblica Amministrazione incompetente, lenta ed inefficiente a perdere gli straordinari benefici contenuti nel PNRR. E non basta: la Giustizia, la Sanità e soprattutto la Scuola presentano situazioni disastrose, nonostante l’esistenza di risorse individuali, professionalmente apprezzate dai cittadini e anche invidiateci nel mondo. In tutti i settori dove la “mano pubblica” ha dilatato i suoi poteri, ci sono esempi di lungaggini, di blocchi di cantieri, di noie burocratiche o, peggio, di esempi di corruzione. Una melassa terrificante che imprigiona il nostro Paese riducendo anche la speranza dei più ottimisti.
Siamo bloccati da una piovra che avvolge ogni settore, blocca ogni tentativo di riforma, impedisce la realizzazione di progettualità virtuose: sembra quasi voler difendere l’esistente anche se pieno di difetti, senza alcuna ambizione di pensare al futuro e alle nuove generazioni. Anche uomini dello Stato, di riconosciuta abilità e competenza come Mario Draghi, sono andati a sbattere contro il vero “padrone” dell’Italia di questo terzo millennio: la burocrazia statale. Ecco che cosa addebito a Silvio Berlusconi: con il suo talento, la forza del mandato ricevuto dai suoi milioni di elettori, la sua dichiarata volontà di cambiare il Paese liberandolo dai lacci e lacciuoli della burocrazia, in realtà ha fallito!
Forse ci avrà anche provato, ma è stato sconfitto. Non ha raggiunto il suo scopo: quello dichiarato nel famoso discorso televisivo della sua “discesa in campo”. Certo, ha pagato colpe anche non sue: fatto sta che oggi però la melassa si è ulteriormente consolidata e ciascuno di noi cittadini italiani può constatare, ogni giorno, l’esistenza di un immane apparato burocratico che si autolegittima ad avere sempre e comunque l’ultima parola, quella decisiva, per qualsiasi decisione… di non fare sostanzialmente nulla! Qui sta il punto focale del rischio prospettico che il nostro Paese non riesca più ad uscire da questa palude. Qui risiede la delusione e il rimpianto di aver avuto un talento particolare alla guida del Governo che però ha sprecato le sue doti straordinarie.
Riccardo Rossotto