Secondo Gaetano Salvemini chi scrive di storia non può essere imparziale. Può essere solo intellettualmente onesto, cioè rendersi conto delle proprie passioni e metterne in guardia i lettori. La probità è un dovere, ma l’imparzialità un sogno. Ed infatti, io non sarò imparziale in questo articolo. Sarò sicuramente probo nell’esposizione dei fatti, ma imparziale no. E non lo sarò perché racconterò di uomini straordinari. Uomini che amarono la libertà più di ogni cosa. E che furono, come scrisse Montanelli, «puri e duri, un’élite umana erede di un élite culturale». Carlo Rosselli, Emilio Lussu, Alberto Tarchiani, Alberto Cianca, Francesco Fausto Nitti, lo stesso Salvemini, fondarono a Parigi nel 1929 il Movimento antifascista e liberalsocialista di “Giustizia e Libertà”. Seguiti in Italia da Ernesto Rossi, Riccardo Bauer, Francesco Fancello. Quando i Tedeschi occuparono la Francia, il Movimento si sciolse e i suoi militanti confluirono nel Partito d’Azione che diede il nome di “Giustizia e Libertà” alle proprie brigate partigiane.
35mila aderenti, il 20% della Resistenza italiana
I membri di queste formazioni furono circa 35000, il 20% di tutta la Resistenza italiana. Di essi 4500 sacrificarono eroicamente la loro vita. In proporzione al numero dei loro militanti, le brigate gielliste ebbero una quantità di caduti superiore alle altre formazioni. Fra questi dobbiamo ricordare il nome dell’Avvocato Duccio Galimberti, che pronunciò, secondo Emilio Lussu, i primi discorsi pubblici del Partito d’Azione dopo “l’otto settembre”. O quello di Leone Ginzburg, direttore del giornale dello stesso partito, “Italia Libera”, torturato e ucciso dai Nazisti nel 1944 a Roma. Di queste brigate fecero parte anche altri nomi celebri come, ad esempio, Ferruccio Parri, Leo Valiani, Riccardo Bauer, Emilio Lussu, Alessandro Galante Garrone, Giorgio Bocca, Nuto Revelli. Anche l’Avvocato Bruno Segre fu un partigiano di GL. Già prima di questa esperienza aveva dimostrato tutta la sua tempra. Figlio di padre ebreo e madre cattolica, ma libero pensatore, secondo le famigerate leggi razziali del 1938 per essere considerato ariano sarebbe dovuto divenire cattolico.
Bruno Segre rifiutò di piegarsi a un finto battesimo cattolico
Poiché già allora, come oggi, rifuggiva ogni imposizione, rifiutò di piegarsi e di utilizzare, per salvarsi, un finto battesimo cattolico. Fu poi due volte incarcerato per le sue idee dai fascisti, che al momento dell’arresto gli spararono, e rischiò concretamente di essere deportato. Segre ricorda nel libro “Non mi sono mai arreso” le ragioni che lo spinsero a combattere fra quelle fila: «Avevo letto Rosselli, Salvemini, e mi pareva giusto realizzare il Socialismo con metodi liberali. Gli azionisti erano un esercito di generali senza esercito. Perlopiù intellettuali». Anche da queste vicende e parole traspare evidente la caratteristica che contraddistingue questi Partigiani. Il riferimento al principio assoluto della libertà. Una ragione che li spingeva a combattere per cacciare i tedeschi ed eliminare i fascisti, ma anche per gettare le basi di un nuovo ordine politico e sociale. La Storia li poneva nel vortice di una guerra civile non solo nazionale, ma anche europea, nella quale si fronteggiavano il passato e il futuro.
C’era la consapevolezza di vivere una fase costituente della storia mondiale…
Scrive Giovanni De Luna nel suo bel libro, “Il Partito della Resistenza. Storia del Partito d’Azione. 1942-47”: «C’era la consapevolezza di vivere una fase costituente della storia mondiale, che da quella guerra senza precedenti poteva e doveva nascere un ordine nuovo, anche solo per dare un senso a quelle rovine e a quei lutti inenarrabili. Il nazismo e il fascismo erano veramente considerati la fine dell’umanità, un esito tragicamente incubato in seno al vecchio mondo. Per rinascere bisognava distruggerne tutte le premesse culturali, ideologiche, sociali, economiche. Questo era il significato della guerra civile europea. La scelta era inevitabile». E quei Partigiani scelsero di combattere per un mondo nuovo di libertà e democrazia. E lo fecero anche adottando un diverso modo di organizzare la vita militare delle brigate. Poiché, infatti, combatterono per abbattere una dittatura, anche la lotta fu improntata ad un metodo democratico. Non più gerarchia, ordini che non si discutono, galloni e gradi, ma una palestra di democrazia diretta per l’instaurazione di un nuovo sistema fondato sulla libertà e la partecipazione popolare. Questo metodo richiese una maggiore forza morale, una più grande disciplina etica nel senso che aveva insegnato Piero Gobetti, un altro dei padri culturali di GL.
Criteri dell’arruolamento e di epurazione più severi delle altre formazioni
Ed infatti, i criteri di selezione nell’arruolamento e di epurazione interna delle brigate furono molto più severi di quelli delle altre formazioni, e anche sul piano del rispetto delle donne partigiane la posizione dei Giellisti fu all’avanguardia. Pure sotto il profilo dell’educazione politica del partigiano non vi fu l’indottrinamento utilizzato da altre brigate, ma una trasmissione spontanea di valori che rispecchiava questa impostazione libertaria. Scrisse l’avvocato Dante Livio Bianco, comandante delle brigate di GL in Piemonte: «Qui gli ideali, i motivi politici, le ragioni storiche non hanno bisogno di essere formalmente insegnati; essi sono nell’aria, nella realtà stessa che circonda il partigiano». Una realtà che vide operai e contadini combattere al fianco di un gruppo dirigente di estrazione borghese.
Furono uomini con una vera e propria vocazione al sacrificio per un ideale di civiltà, duri fino all’intransigenza più assoluta. Avrebbero voluto continuare, anche dopo la fine della guerra, la battaglia per una rigenerazione morale della nazione. Avrebbero voluto un allontanamento di tutti coloro che si erano compromessi con il passato regime e che occupavano posti di rilievo nei punti chiave del Paese. Ma, come sappiamo, questo non fu possibile, e l’opera di epurazione, anche per l’amnistia di Togliatti, si ridusse a poca cosa. In questo modo l’Italia, a differenza di Germania e Giappone, non fece i conti con la propria storia, con le conseguenze che possiamo riscontrare anche oggi in termini di mancanza di memoria storica di molti Italiani.
L’Italia diventa una Repubblica
E lo divenne soprattutto grazie all’irremovibile ostinazione degli Azionisti che, nonostante la posizione contraria di Togliatti, rifiutarono la collaborazione con il governo di Badoglio, spinsero per la nascita del governo Bonomi e la riforma delle istituzioni attraverso il referendum. Vale la pena ricordare le parole di Ferruccio Parri, il comandante delle Brigate gielliste, a proposito di tutta la Resistenza: «Rifiutiamo per noi le penne del pavone. Sono gli Alleati che hanno sconfitto il nazismo e la sua triste appendice. Dietro di essi abbiamo vinto anche noi. Non è stato un miracolo, ma è stato il riscatto di fronte al mondo ed all’avvenire dell’onore nazionale; e questo riscatto, pagato col dono così grave del sangue più generoso, resta una cosa grande nella storia di un Paese che pareva civilmente e moralmente paralizzato dall’inquinamento fascista». In questa storia, un posto d’onore spetta agli eroi di “Giustizia e Libertà”.
Lorenzo Bianchi