Anche se la nostra è soprattutto una testata “di opinioni”, abbiamo sempre dato spazio pure ad articoli sviluppati sotto forma di intervista. I nostri autori si sono interfacciati sia con personaggi noti al grande pubblico, sia con esperti apprezzati nei rispettivi settori. Presto L’Incontro inaugurerà una sezione dedicata proprio alle interviste, alcune delle quali accompagnate da audiovisivo. Questa volta ne pubblichiamo una alla scrittrice Silvia Aprile, a cura di Diego Zandel.
di Milo Goj
Silvia Aprile è nata a Taranto, ma il suo romanzo d’esordio, fin dal titolo “L’affascina negli occhi”, edito da Ensemble, parla della Lucania, attraverso una storia del Novecento, ma ancora fortemente impregnata di credenza arcaiche, profonde, magiche. “L’affascina” del titolo, infatti, è quella forza occulta che agisce, insidiosa, attraverso gli occhi e che fa parte della cultura mediterranea, tanto diffusa da spiegare, ad esempio in Grecia, in Turchia, nel mondo arabo, la presenza addosso o in casa o sulla porta di un negozio di un amuleto, il cosiddetto “occhio del visir”, che avrebbe la forza di scaricarne il potere.
Silvia Aprile, quant’è diffusa questa credenza nella Lucania di oggi?
Questa credenza oggi rimane appannaggio delle persone più grandi di età che hanno vivo il ricordo dei rituali magici e degli oggetti per difendersi dall’affascina. Diversamente, tra i giovani sta crescendo la volontà di ripercorrere certe tradizioni al fine di valorizzare il proprio territorio. In Lucania si vuole andare oltre le visioni turistiche legate al cibo e alla narrazione del brigantaggio e ripercorrere la composita ricchezza culturale che scaturisce dal ricordo dei maciari. Nel Potentino associazioni e pro-loco accompagnano visitatori e turisti in percorsi alla scoperta del passato magico della Basilicata.
Sei nata a Taranto e vivi nei pressi di Roma, come mai per il tuo romanzo d’esordio hai rivolto lo sguardo a quel mondo così lontano da te?
Ho scritto questo romanzo perché ho voluto esplorare una parte della mia identità. Mia madre è nata in provincia di Matera, a Rotondella, borgo definito “balcone dello Jonio”. Con la sua famiglia si trasferì a Taranto quando mio nonno Prospero, al quale ho dedicato questo romanzo, venne assunto nell’attuale ex Ilva. Negli anni ’60 infatti, con l’apertura dell’acciaieria a Taranto, molti lucani emigrarono in Puglia invece che al Nord. I nonni materni mi hanno sempre parlato in dialetto e raccontato della vita nel paese di origine e delle credenze popolari diffuse. Per mia nonna sono rituali demoniaci, ma è proprio da questi racconti che nasce “L’affascina negli occhi”.
Hai esplorato tanto la tua identità che fin dalla prima pagina il lettore scopre una scrittura in cui il dialetto lucano, i modi di dire e singole parole, emergono conferendo ad essa uno stile che ben s’impasta con la storia tragica che racconti, una storia d’amore e di follia, tanto arcaica (siamo nel 1946) da far sospettare una ricerca a tutto tondo, storica, etimologica, antropologica. Cosa ci dici a riguardo, anche rispetto ai tuoi autori di riferimento dei quali la Lucania non manca, a cominciare da Rocco Scotellaro?
Per poter affrontare il romanzo mi son documentata, non ritenendo di potermi affidare unicamente al bagaglio familiare. Ho letto i testi del Prof. Ernesto De Martino, antropologo napoletano che con la sua equipe negli anni ’50 si recò in quelle terre per studiare le credenze e i rituali magici diffusi tra i contadini lucani. Grazie a questo studio ho ritrovato le consuetudini popolari raccontate tra le mura domestiche, ne ho appreso l’origine antropologica e migliorato la scrittura del dialetto. Dal punto di vista letterario non ho autori lucani di riferimento, lo sono di più alcuni scrittori sudamericani maestri di realismo magico.
Una domanda sulla donna protagonista del tuo libro, Rosa, la cui storia d’amore che sconfina nella pazzia, è emblematica del mondo che lei attraversa. Ma proprio perché emblematica, per Rosa non c’era altra strada che il manicomio o questo è la sua punizione perché è andata oltre. Oltre a che cosa?
Rosa va oltre. Pur vivendo un contesto isolato è una donna del ‘900, i suoi coetanei nel resto d’Italia affrontano la guerra e sperimentano idee rivoluzionarie che porteranno a cambiamenti epocali. È sì una maciara, simbolo del mondo contadino, ma va oltre, si ribella alle autorità tradizionali e viene punita, nello stesso modo in cui vennero punite centinaia di donne e uomini in quegli anni.
Ci aspettiamo da te un altro romanzo lucano?
Credo che in futuro, anche se non nell’immediato, a mio modo esplorerò il fenomeno dell’emigrazione economica dalla Basilicata, un vero e proprio esodo che ha spopolato interi borghi.