Antonio Zorco, detto Nino, è l’autore di un libro di memorie centrate soprattutto sul suo arresto nell’agosto del 1944 da parte dei tedeschi e sulla sua detenzione ai lavori forzati nel campo di concentramento di Mühldorf dal 9 settembre 1944 al 4 agosto 1945.
Era mio zio, fratello maggiore di mia madre…
A Fiume, dove andai per la prima volta con lei nell’aprile del 1954, sette anni dopo la sua fuga con mio padre dalla città passata alla Jugoslavia con il Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947, lo avrei conosciuto come tutta la famiglia di mia madre: genitori, un fratello, zio Nino, appunto, e una sorella, zia Joli. Mio nonno, anche lui di nome Antonio, in quel momento unica fonte di reddito della famiglia, quale dipendente della Romsa – la raffineria di Fiume, poi diventata sotto la Jugoslavia, INA (Iugoslavenska Nafta) – aveva deciso di rimanere a Fiume per l’incognita che, per un uomo di 52 anni, quanti ne aveva allora, rappresentava l’esodo. Ma poi, solo pochi anni dopo, visto quello che stava succedendo in città, con l’instaurazione del regime comunista – l’imperversare dell’Ozna, la polizia politica di Tito, con omicidi, sparizioni di persone, gli espropri delle attività imprenditoriali e commerciali, l’occupazione abusiva delle case lasciate dagli esuli da parte di gente, stranieri, proveniente da altre regioni della Jugoslavia – non esitarono a fare, per ben due volte, domanda di venire in Italia, in virtù delle opzioni concesse dagli accordi italo-jugoslavi agli italiani.
Le autorità jugoslave rifiutarono le loro richieste
Però entrambe le volte le autorità jugoslave rifiutarono le loro richieste. La motivazione era implicita nel fatto che, essendo mio nonno, e così, più tardi, lo stesso zio Nino e la sorella minore Jolanda, soltanto braccia, forza lavoro, privi quindi di proprietà e imprese da espropriare – nonna Antonia era casalinga – servivano per coprire la crisi di posti di lavoro dovuta all’abbandono degli stessi da parte delle maestranze italiane che, in massa, avevano lasciato la città. Tant’è che, come vedremo dal racconto di zio Nino, a dirigere la raffineria vennero chiamati ingegneri cecoslovacchi e mano d’opera bosniaca.
I nonni e gli zii, quando con mia madre arrivammo a Fiume, vivevano ancora tutti insieme nella stessa casa, una villa, Villa Laura, di proprietà della famiglia Springhetti che aveva chiesto ai nonni, la cui casa era stata bombardata, di abitarla prima che venisse occupata da estranei, come accadeva sempre più massicciamente (accadde questo anche nella casa della famiglia di mio padre, occupata abusivamente da un poliziotto jugoslavo). Si trattava – lo è ancora – di una casa di due piani della quale era stato ultimato solo il secondo, mentre il primo sarebbe stato portato a termine e occupato dalla famiglia di un montenegrino.
L’odissea della deportazione
Nonostante avessi sei anni, zio Nino mi raccontava spesso, l’odissea della deportazione e quanto vissuto nel campo di concentramento. Ogni occasione era buona e devo dire, in tutta onestà, che a un certo momento, mi annoiavo ad ascoltarlo e non lo seguivo più, desideroso com’ero a quell’età solo di giocare, di correre per l’orto, di andare col nonno, seguiti dal fedele cane Dick, a tagliare l’erba del prato per i conigli e la capra o a portare questa al pascolo, a vedere se le galline avevano fatto le uova e gioire alla scoperta di trovarle tra la paglia.
Zio Nino sarebbe tornato più volte ai suoi ricordi di Mühldorf, non solo quel primo anno, ma anche in quelli successivi, quando ormai ogni estate, finito l’anno scolastico, tornavo a Fiume, dove zio Nino riservava ancora a me molto del suo tempo libero. Trascorrevamo insieme i pomeriggi e almeno una volta a settimana mi portava al cinema. Ricordo di aver visto con lui “La lunga strada azzurra”, con Alida Valli e Yves Montand, girato, diceva zio, in Istria e “Kapò” entrambi di Gillo Pontecorvo, film, naturalmente in lingua italiana originale con sottotitoli in serbocroato. Film che poi, naturalmente, diede la stura ai ricordi del campo di concentramento di zio. Ricordi che tuttavia erano il sottofondo della sua vita e che negli anni, finché è vissuto, non ha mai smesso di raccontare, non solo a me, naturalmente, ma anche alla figlia Anci, con la quale, quando stavamo insieme – e lui, meticoloso com’era, la tirava per le lunghe con i ricordi in tutti i loro dettagli – ci guardavamo rassegnati ad ascoltarlo, cercando poi in qualche modo una via di fuga. Forse perché percepivamo la sofferenza che c’era dietro e noi eravamo ancora tanto giovani e spensierati.
Poi ho saputo, da zio stesso, che aveva cominciato a scrivere le sue memorie di quel tempo. Ci avrebbe messo degli anni. Non era certo uno scrittore di professione, né un letterato. Ma ci ha lasciato questo racconto di anni che sono stati cruciali non solo per zio Nino, ma per tutti gli istriani e, specificatamente in questo caso, i fiumani che, dopo le traversie della guerra comuni a tutti gli italiani della guerra, si sono ritrovati alle prese con un’occupazione militare e, ancora una volta, a dover fare i conti con una nuova dittatura che avrebbe costretto gran parte di essi all’esilio e i rimasti a sentirsi estranei in casa propria per l’arrivo da confini lontani, dalla Bosnia, dalla Lika, dal Gorski Kotar, dalla Serbia, dal Kosovo addirittura, di gente che parlava un’altra lingua, di usi e costumi e cultura molto diversi.
Istriani e fiumani contro il nazifascismo
E, questo, in spregio anche al contributo che molti istriani e fiumani avevano dato alla lotta contro il nazifascismo, per liberare le loro terre da quest’ultimo, però, non per poi cederle alla Jugoslavia e dover vivere sotto una bandiera che non riconoscevano come propria e, per altro, in condizioni di cattività ideologica e di minoranza. In questo senso il diario di mio zio spero contribuisca a eliminare i pregiudizi, nati dalla vergognosa propaganda del PCI che non pochi scheletri aveva nell’armadio per quanto era successo sul confine orientale a causa del suo malintenzionato oltre che malinteso internazionalismo per il quale stavano più con Tito che con i giuliani, pregiudizi duri a morire, che hanno finito col far passare tutto un popolo, quello istriano e fiumano, in barba alla verità, come di tendenza fascista.
Ma se qualche fascista c’era, lo era, in percentuale, nella stessa misura e quantità presente e probabilmente anche minore che a Roma o a Bologna e in ogni altra città, paese e campagna del resto d’Italia. Così come, in Istria e a Fiume, fascisti della prima o dell’ultima ora si ritrovarono d’emblée, come ben racconta zio Nino, d’un sol colpo partigiani, comunisti, antifascisti, ben allineati, e con analoga arroganza, con il nuovo potere rosso, così come lo erano stati con quello nero. A parte i tanti fiumani deportati, che appaiono nel racconto, altri, la stragrande maggioranza di essi, tra i quali mio padre, furono partigiani. Mio padre, specificatamente, nella 4a armata, comandata dal generale Drapšin, dalla quale comunque disertò una volta entrato con questa a Trieste, avendo assistito allo scempio che i partigiani di Tito facevano di quanti, tanti partigiani e antifascisti compresi, non volevano sottostare alla loro occupazione della città, della regione intera, opponendosi al rischio di una possibile annessione. Diserzione, quella di mio padre, che, tornato a Fiume, gli costò il carcere. Ma partigiana, seppur giovanissima, fu anche mia madre, che diede il suo contributo come staffetta agli ordini della fiumana Vera Bratonja, la quale poi, arrestata dai tedeschi, avrebbe conosciuto la terribile morte nella risiera di San Sabba a Trieste.
Spero che questa testimonianza di mio zio Nino, del tutto privata, famigliare, cioè slegata da ogni ragione di carattere pubblico e ancora meno politico, possa contribuire a rendere giustizia a quei tanti istriani e fiumani che, dopo essere stati vittime dei totalitarismi fascista e comunista, lo sono stati anche di una violenta propaganda che almeno fino alla istituzione del Giorno del Ricordo – comunque da qualcuno ancora non tollerata – ha fatto strame del loro sacrificio durante e, soprattutto, dopo la guerra, quando, unici, non solo pagarono, con la cessione delle loro terre e l’esilio, per una guerra persa da tutti, tutti, gli italiani, ma furono accolti a sputi e insulti. Questo, quando il loro sacrificio meriterebbe almeno il rispetto, se non la riconoscenza.
“Ma io in guerra non ci volevo andare” è corredato da una postfazione dello storico Roberto Spazzali – autore, tra l’altro, del libro “Sotto la Todt” – che inquadra la terribile esperienza di mio zio, Antonio (Nino) Zorco, nel più ampio contesto storico della organizzazione nazista di lavori forzati Todt, della quale sono stati vittime tanti istriani, fiumani e triestini, in una parola giuliani, per i quali tutti “certamente è stata una esperienza traumatica e formativa, anche se quelle generazioni non ne sentivano il bisogno, almeno in quei termini”. Termini che il racconto drammatico, spesso tragico, della sua esperienza, ben esprime.
Diego Zandel