L’editore Gammarò, della Oltre Edizioni, torna a pubblicare “Alessandra”, il
romanzo dello scrittore Stefano Terra. Nato a Torino nel 1917 e morto a
Roma nel 1986, Stefano Terra – il cui vero nome era Giulio Tavernari – è oggi
uno scrittore ingiustamente dimenticato. Ingiustamente perché è stato un
grande scrittore.
Iniziai a leggerlo e ne restai folgorato…
Lo scoprii tale proprio grazie alla lettura di “Alessandra”, romanzo con il quale
vinse il Premio Campiello nel 1974. Non era quello il suo primo romanzo, ma,
confesso, io ero la prima volta, nei miei allora primi 26 anni di vita, che lo
sentivo nominare. Acquistai il libro perché, avevo letto sui giornali, era
ambientato in Grecia, a Rodi – ed io avevo una moglie di origine greca, di
un’isola, Kos, appartenente allo stesso arcipelago di Rodi, il Dodecaneso – e
alla stessa storia degli ultimi secoli. Presi a leggerlo e ne restai folgorato.
Lo lessi, tra l’altro proprio a Kos, tanto da ritrovare, tornato a Roma, in successive aperture di quelle pagine, qualche granello di sabbia della spiaggia dove lo portavo con me, granelli di sabbia che accolsi come reliquie di un mondo che ormai avevo preso ad
amare fin dalla prima volta che vi misi piede. Colto dalla nostalgia di tornarci,
la alleviavo rileggendo qualche pagina di “Alessandra”, che la prosa di
Stefano Terra riusciva a far lievitare tanto da rimandarmi l’eco di quel mondo,
di quei cieli azzurri sui quali si rispecchiava il mare Egeo. Ci penso soltanto
adesso, parlando di quel tempo, adesso che sono anziano, che allora ero
giovane, poco più che trentenne, eppure rimasi incantato da quella storia
d’amore tra due anziani.
Il fascino del sogno di avere una vita piena…
Alessandra malata e lui, il protagonista in cui si rispecchia lo stesso Stefano Terra, l’inviato speciale, il corrispondente dai Balcani e dal Levante, come amava chiamare lui il medioriente, il console onorario a Rodi con alle spalle una vita di avventuriero (“L’avventuriero timido” sarà il titolo di un suo libro di poesie, edito da Guanda) che l’accudisce tra i fantasmi della loro vita di lotte libertarie, tra anarchici e trotzkisti. Cosa affascinava in quel giovane lettore dell’amore tra due anziani, due
persone lontane dall’età, dai sentimenti che poteva provare lui? Credo che lo
affascinasse il sogno di avere una vita piena come la loro, un’esistenza non
comune, avventurosa, romanzesca, verrebbe da dire. Solo che quella
esistenza, e il romanzo che la raccontava, a leggerlo, aveva un dono in più:
l’afflato di una scrittura che afferrava il lettore alle viscere per trascinarlo dritto
al cuore dalla prima all’ultima pagina.
“L’aeroporto dell’isola si chiama Maritza come il fiume della Tracia. La pista è
in salita su uno sperone di argilla che si spinge alto sulla piana dei mulini a
vento. Quella notte passai fra ulivi e oleandri illuminati dai fari…”
Sta di fatto che dopo la lettura di “Alessandra” andai in cerca degli altri suoi
libri. Trovai con difficoltà altri due romanzi scritti in precedenza “La fortezza
del Kalimegdan”, edito da Bompiani nel 1956 e “Calda come la colomba” del
1971 per lo stesso editore, al quale Terra sarebbe rimasto sempre fedele,
tranne che per un breve periodo quando, convinto dal suo agente letterario
Erich Linder, pubblicò un paio di romanzi tra il 1979 (“Le porte di ferro”) e i
1982 (“Albergo Minerva”).
Prosa, poesia e reportage
E quei due romanzi, “La fortezza del Kalimegdan” e “Calda come la
colomba”, furono non meno folgoranti di “Alessandra”. Non avrei trovato
nessuno dei precedenti libri. “Morte di italiani”, “Il ritorno del prigioniero”, “Sul
ponte di Dragoti”, i libri di poesia, ma anche di reportage come “Il sorriso
dell’imperatrice” con la bellissima Soraya in copertina e il sottotitolo “Viaggio
in Grecia e nel Medio Oriente”, alcuni dei quali avrei recuperato negli anni
sulle bancarelle o, più recentemente, su internet.
Una prosa semplice, breve e realistica
Certo, su un lettore come me, nato in un campo profughi, figlio di esuli
fiumani, vittime della Jugoslavia titina, e poi sposato a una ragazza di madre
greca, perciò legato a filo doppio ai Balcani, i romanzi di Stefano Terra,
interamente proiettati verso quel mondo, potevano avere facile presa se non
altro per motivi ambientali e culturali. In realtà ciò che più mi avvinceva di essi
era la pagina, la scrittura, quelle frasi brevi, come sospirate, venate di poesia,
che schiudevano immagini che avevano la forza di un grande fororeporter, di
un Robert Capa, di uno Steve McCurry. I romanzi, intessuti di memoria,
investigavano la coscienza inquieta di personaggi solitari, sullo sfondo di
quegli scenari in storie che si dipanavano tra personaggi che avevano il
portato esistenziale dello stesso Stefano Terra e che ben presto si sarebbe
ritrovato a frequentare un gruppo di giovani antifascisti torinesi.
Una vita raminga
Da qui, dopo aver fatto esplodere una bomba carta durante una manifestazione fascista ed essere stato richiamato in Albania, prenderà le mosse la sua vita raminga.
Nel 1941 ripara al Cairo e ad Alessandria d’Egitto, prendendo a frequentare
gli esuli di Giustizia e libertà, Aldo Garosci, Umberto Calosso, Paolo Vittorelli,
la scrittrice Fausta Cialente, una storia che Terra racconterà in “La
generazione che non perdona”, che avrebbe pubblicato al Cairo nel 1942
“quando Rommel arrivava a El Alamein e si bruciavano gli archivi nel cortile
dell’ambasciata britannica”. Un libro che poi, nel 1945, Einaudi avrebbe
ripubblicato con il titolo “Rancore”, per scelta di Franco Fortini, ma che poi
tornò ad essere “La generazione che non perdona”, molti anni dopo, nel
1979, riproposto da Bompiani con in apertura un dialogo tra Terra e Franco
Calamandrei, senatore della Repubblica, figlio del grande Piero Calamandrei,
dialogo che io ebbi l’onore di redigere per desiderio dello stesso Terra.
Il giornalista girovago tra libri e corrispondenze
E poi, via via, altri libri. Di racconti, romanzi, poesie, reportage, mentre si
guadagnava la vita facendo il giornalista. Ma non come topo di redazione, ma come si
vantava, sempre in giro per il mondo, da inviato speciale – per Ansa, La stampa, RAI. Corrispondente prima da Parigi poi da Belgrado e i Balcani tutti, quindi Gerusalemme e infine da Atene e il Medioriente. Già nell’immediato dopo guerra era a Belgrado dov’era rimasto tre anni (raccontati in “Tre anni con Tito”, nel 1953), libro che fu fatto sparire dalla circolazione dal Maresciallo che Terra aveva attaccato per Trieste. Sua
moglie Emilia Srnić, una serba che lui conobbe a Belgrado, raccontava che
l’ordine era quello di comprare tutte le copie in vendita nelle librerie italiane,
operazione a cui si prestarono, oltre agli emissari di Tito, anche funzionari di
Palazzo Chigi, per ragioni meramente diplomatiche, visto che c’era ancora in
ballo, appunto, il futuro di Trieste.
Le sue ceneri sotto un ulivo e tutto il suo mondo in Attica
Fu questo amore per i suoi libri, per il mondo che raccontava, a farmi
avvicinare a lui per la voglia di conoscerlo di persona. Tante volte si dice che
è meglio non conoscere gli scrittori dei libri che ami perché potresti restare
deluso al punto da condizionare così il giudizio sulle sue stesse opere. Ma a
me non è accaduto. Dal giorno in cui nei lontani anni Settanta l’ho conosciuto
fino al 5 ottobre del 1986, il giorno in cui morì, non mi ha mai deluso (tra
l’altro la moglie Emilia chiamò me all’alba, tanto eravamo legati, subito dopo
aver avvertito la figlia Susanna, che Terra era appena deceduto). Per
espresso suo desiderio le sue ceneri riposano nella sua casa dell’Attica,
sotto un ulivo e “con eucalipti, vigna adagiata sull’argilla, gatti dalla testa
piccola e le volpi all’imbrunire”.
Diego Zandel