Ci sono poche cose oggettive nella vita ma fra queste ve ne sono tre su cui oggi vorrei puntare l’attenzione. La prima è che metà dei problemi del mondo moderno originano da un inglese armato di squadra e righello. Tuttora si combatte e si muore su quelle righe tracciate sulle mappe del deserto del Medio Oriente. Come scrive Martinetti appena ieri il califfo nero Al Baghdadi, capo di quell’entità feroce e mutevole che si chiama Stato islamico, proclama che l’avanzata dei suoi “non si fermerà fino a che non sarà stato piantato l’ultimo chiodo sulla bara della cospirazione Sykes-Picot”. Infatti, cent’anni fa, nell’ufficio dove ora siede il premier britannico, Mark Sykes e François Picot, in rappresentanza di Gran Bretagna e Francia, si spartivano le spoglie dell’impero Ottomano siglando – con l’intesa silenziosa della Russia – quello che venne chiamato «Accordo sull’Asia minore».
Intesa su cui si è costruita l’architettura geopolitica moderna
Il testo rimase segreto fino a quando non fu rivelato da Lenin e Trotzkij, un anno dopo, a rivoluzione d’Ottobre compiuta e zar deposto. Su quell’intesa si è costruita l’architettura geopolitica moderna che per effetto della guerra in Siria si sta decomponendo secondo linee di frattura che ripropongono le divisioni che quegli accordi avevano composto solo virtualmente. Oggi più che mai quelle linee di frattura si stanno ampliando oltre gli orizzonti del Medioriente riproducendo la logica di tutti conflitti che si sono svolti là nel deserto. La conquista di vie di comunicazione e risorse naturali, l’acqua tradizionalmente e – oggi – il gas e il petrolio. L’altra metà dei problemi, si suggerisce da più parti e alla luce della guerra in Ucraina, deriva dal fatto che il conflitto innescatosi con la prima guerra mondiale non si sia mai realmente placato a seguito dei compromessi, soprusi e malintesi introdotti con i trattati di pace. Un esempio su tutti è il trattato di Versailles che ci condusse dritti e senza esitazione al secondo conflitto mondiale.
Una rivoluzione nata a discapito dell’India
La seconda oggettività è che la Rivoluzione Industriale è stata finanziata tramite la sistematica distruzione coloniale e parassitica di un paese un tempo decisamente florido. Ovvero l’India. Un recente rapporto stilato dagli analisti finanziari della Goldman Sachs di New York, sottolinea che: “agli albori della rivoluzione industriale, l’India era la seconda economia mondiale e contribuiva con oltre il 20% alla produzione globale”. All’epoca in cui Vasco de Gama raggiunse la costa occidentale indiana, nel 1498, l’India era ben lungi dall’essere un paese ripiegato su sé stesso. Gli scambi erano intensi. Le carovane di commercianti dell’impero Moghol, andavano, ad Est, fino in Indonesia ed in Cina e, ad Ovest, verso la Persia. Con gli esploratori vennero i commercianti occidentali: i portoghesi installarono dei presidi sulla costa occidentale, presto seguiti dall’Olanda, la Gran Bretagna e la Francia.
Le fortune della Compagnia inglese delle Indie orientali
Gli europei esclusero i mercanti indiani dal commercio marittimo con l’estero, e svilupparono un partenariato soltanto con quelli più importanti, che fungevano da intermediari. La conquista di territori fu realizzata poco a poco. L’Inghilterra si impose rapidamente: fin dal XVIII secolo regnava su tutto il sud dell’India. Per molti decenni, la Compagnia inglese delle Indie orientali realizzò grandi fortune commerciando prodotti indiani, soprattutto spezie, prodotti di cotone e di seta. Impose il suo monopolio con la forza, ed il commercio si trasformò rapidamente in puro e semplice saccheggio. La Compagnia costringeva i contadini ed i tessitori di tela a venderle la totalità della loro produzione, a prezzi da lei fissati. Schiacciava i villaggi sotto il peso di tasse che andavano ad ampliare la fortuna degli azionisti della società.
Ogni Nazione ha il Governo che si merita
Fu effettivamente il denaro dell’India prelevato a mezzo di rapina che finanziò in larga parte la rivoluzione industriale in Gran Bretagna. Tali capitali vennero investiti intorno al 1800 avvalendosi delle recenti innovazioni tecniche, come la macchina a vapore, non più solo nella vendita delle merci, ma nella loro stessa produzione. La generalizzazione dell’uso delle macchine trasformò la manifattura in fabbriche e gli operai in semplici prolungamenti di queste ultime. La rivoluzione industriale sostituì la produzione di massa alla produzione artigianale. Chiaramente quanto riportato non vuole essere un saggio sugli effetti del colonialismo o sull’imperialismo ma voler far notare come, o per potere o per denaro, i danni ad ogni livello e in ogni ordine di tempo che un approccio culturale può generare. Più esplicitamente, il colonialismo o l’imperialismo, cosi come tutto ciò che uno Stato fa, è un’espressione politica. E la politica è sempre l’esecuzione della cultura del paese che la determina. Il famoso detto infatti dice: “Ogni Nazione ha il Governo che si merita”.
Come si genera questa cultura, tutt’oggi dominante?
Qui arriviamo al terzo dato di fatto, sempre a trazione Anglo-Francese. Una contrapposizione polarizzante fra scienza e filosofia. Ancora oggi non è inusuale trovare scienziati che disprezzano Filosofia e Teologia poiché non misurabili, relegandole ad attività folkloristiche. Forse dimenticandosi, avviluppati da una cultura della performance dove anche il valore del sapere si misura con un indice, che la filosofia è la prima delle scienze essendo deputata al compito di, metodicamente, misurare il pensiero. Questo contrapposizione fu introdotta con il pensiero Illuminista. Infatti, la Dichiarazione universale francese dei diritti dell’uomo e del cittadino promulgata da Robespierre divenne la premessa del suprematismo di Napoleonica memoria in palese violazione del principio di legalità. Fu poi rilanciato da quanti, nell’Ottocento, presero il testimone della Rivoluzione inventando il liberalismo europeo e l’imperialismo progressista statunitense (prima del partito repubblicano e poi di quello democratico) fortemente basato sul mito dell’efficienza produttiva.
Le Rivoluzioni politiche dell’Età moderna figlie dell’Illuminismo
Il melting pot euro-indigeno, che grazie a Isabella di Castiglia e a suo nipote Carlo d’Asburgo, si era realizzato nei territori della Nuova Spagna e della Nuova Castiglia in America centro-meridionale a partire dal XVI secolo sulla base del pensiero cristiano, non si ripeté nell’America settentrionale franco-inglese, né in Africa e in Estremo Oriente. E questa mancanza pone inevitabilmente un interrogativo non certo a san Tommaso, ma a Montesquieu, Rousseau, Diderot, Adam Smith e Kant, dato che le tre Rivoluzioni politiche dell’Età moderna (inglese, americana e francese) sono figlie dell’Illuminismo. Perché la teorizzazione illuministica del diritto cosmopolitico e della non inferiorità di tahitiani, ottentotti e persiani rispetto agli europei non fu sufficiente, nel secolo successivo, a impedire a Karl Marx di giustificare «i più vili interessi » del colonialismo britannico in India e in Cina come tappa necessaria del progresso storico?
L’illiberalismo del pensiero politico inglese nel XVII secolo
La risposta è che, alla base della libertà illuministica, vive un inquietante non detto consistente in quell’illiberalismo di fondo del pensiero politico inglese della seconda metà del XVII secolo. Il suo massimo esponente (John Locke) sosteneva che le regioni del Nuovo Mondo fossero terra nullius in quanto le popolazioni indigene che vi risiedevano non coltivavano la terra e non avevano scambi monetari. Questo è il motivo per cui, nei territori a nord della Florida, i pellerossa e gli schiavi neri non ebbero un loro Las Casas. Ed è su questo illiberismo che si gioca la partita della pace. Se si contrappone la ragione, intesa come pensiero misurabile, ad una dimensione metafisica ed irrazionale della persona si tenderà inevitabilmente a voler eliminare una delle dimensioni perché ostacolo ad un compimento. L’esempio paradigmatico più attuale è lo scontro fra la cultura dell’efficienza, la Hussle culture, americana dove tutto è performance misurabile e la WOKE culture dove tutto è percezione. Ciò ci ha condotto spediti verso l’arroganza e violenza bifronte della Cancel culture.
La razionalità non corrisponde alla capacità di misura…
Eppure, la prevaricazione di una dimensione sull’altra si basa su un’illogicità di fondo: la razionalità non corrisponde alla capacità di misura. La stessa matematica lo afferma. I numeri primi sono sparuti rispetto ai numeri irrazionali, cioè quei numeri che non possono essere rappresentati da una frazione. Gli esempi pratici che si potrebbero fare, along these lines, sono infiniti ma ve ne è uno particolarmente prossimale. Nei miei anni di insegnamento ricevevo le statistiche degli studenti sottoposti a psicofarmaci, nominalmente benzodiazepine, poiché non riuscivano a porre in essere un adattamento alle circostanze di vita – nella maggior parte dei casi, circostanze estremamente normali – e quindi sfociavano in nevrosi ansiose inficianti la vita quotidiana disfunzionali alla persona. Come dicevo, la scelta d’elezione per il trattamento erano le benzodiazepine. Ma le benzodiazepine cosa fanno? Semplicemente bloccano la capacità di generare un sintomo, bloccano chimicamente l’espressione di un bisogno profondo che si manifesta con un’incapacità di adattamento.
Stiamo continuando a mettere pezze…
E’ come mettere un tappo su una pentola a pressione, comprensibile nell’emergenza ma non oltre. Il grande inganno risiede nel fatto che una volta iniziato questo approccio è molto difficile cambiarlo. Progressivamente ci fa perdere la capacità di adattarci perché disconosce l’espressione di una nostra dimensione e quindi ne diventiamo schiavi. Il risultato che osservavo è che i miei studenti, in un modo o nell’altro, quel tappo lo facevano esplodere. Con risultati disastrosi. Quest’osservazione è corroborata anche dal fatto che le linee guida per affrontare questi eventi si discostano sempre di più dall’uso di questi principi farmacologici. Purtroppo, va anche detto, che un silos di benzodiazepine costa pochi centesimi mentre anni di psicoterapia sono incredibilmente onerosi. Stante la pandemia di queste problematiche nel mondo evoluto credo che continueremo a mettere pezze a lungo piuttosto che risolvere il problema ma ciò non sposta la generazione del problema.
… ma siamo quindi capaci di compierci da soli?
Ora, confrontandomi anche con me stesso, e per quanto esposto credo che sia l’accettazione, l’equilibrio e la relazione fra una dimensione razionale ed una irrazionale da cui la persona trovi gli strumenti da cui compiersi. Solo un’opportunità di compimento può renderci capaci di generare la Pace personale e universale. Quindi, o usciamo da questa polarizzazione di dimensioni basata su assunti parziali ed errati o non saremo mai metodologicamente capaci di produrre pace. Questo, drammaticamente, apre alla domanda: siamo quindi capaci di compierci da soli? La nostra dimensione irrazionale sembrerebbe suggerire di no. Ma lasceremo queste riflessioni ad altri scritti. Ciò di cui possiamo essere relativamente certi è che “Il silenzio della ragione, razionale ed irrazionale, genera mostri”.
Richard Sorge