Contro le altre cose è possibile procurarsi sicurezza, ma, per quanto riguarda la
morte, noi umani viviamo in una città senza mura. Nonostante ciò, trascorriamo buona parte della nostra vita nell’angoscia, occupati, impegnati a costruire muri sempre più alti. Muri che ci separino dalle minacce concrete e dalle altre non tanto. In questi tempi, di pandemia e guerra, muri che ci separino dagli altri, dagli infetti e, quindi, dai virus e dalla peste, e dalle bombe e dai profughi. Con le mura saremmo protetti; isolati, sì, ma sicuri, irraggiungibili.
Siamo già in clausura
Accade però che il pensiero di Epicuro (Sentenza Vaticana 31) con cui ho iniziato questo testo, senza pretese, contiene un chiaro avvertimento sull’inutilità di questi recinti. Siamo già in clausura, in compagnia della minaccia; all’interno, tra le mura (inesistenti) della città da cui partiremo. È una coincidenza senza tempo che non richiede location: sempre e ovunque ci troviamo, saremo sicuramente chiamati a fare la fila per il traghetto di Caronte. Meglio dire: siamo già in coda! E la barca ci aspetta, a vele issate, sempre pronta a salpare. Dal punto di vista commerciale si tratta di un bel servizio, un successo assoluto: Dovere permanente di servire il cliente! – è il suo motto, in rima discutibile, ma involontaria. Il molo è mobile e non c’è biglietteria aperta.
“Rischio di morte”…
Non ce n’è bisogno. Abbiamo già portato il biglietto dalla nascita, quel momento
di esplosione di vita, che il cauto (e tristo e pio, aggiungo, per ricordare Francesca) Leopardi definì “rischio di morte”. Lo ascoltiamo in silenzio, con grande rispetto perché, dopotutto, il poeta è l’unico autorizzato a parlare di morte. E’ come se lui solo avesse un compito di questa natura. Tutte le altre professioni, in un certo senso, sono dedicate alla conoscenza della vita, come quelle del medico, dell’astronomo, dell’erudito filosofo, del maestro. Solo la poesia, la più strana delle attività umane, è dedicata alla conoscenza della morte (Hermann Broch, La Morte di Virgilio). Questo è l’unico mestiere per il poeta, ed è un compito assai necessario perché nella morte i paesaggi della vita e dell’infanzia si uniscono, formando un unico punto che illumina l’intera traiettoria dell’uomo.
Per imparare a vivere ci vuole tutta la vita
Ci sono dei saggi che dicono addirittura che viviamo per questo, come Seneca,
quando si rivolge a Paolino e gli dice: Per imparare a vivere ci vuole tutta la vita e, per quanto tu possa stupirti, tutta la vita è imparare a morire. (La Brevità della Vita VII, 3). Per due decenni ho usato questa frase (nell’originale, in latino, perché sono snob) alla fine dei miei messaggi elettronici, come firma. E l’ho fatto soprattutto per poterla leggere quotidianamente io stesso. Nel corso degli anni, l’uno o l’altro amico che l’ha ricevuto mi ha poi scritto, chiedendomi di parlargli del suo significato. E gli ho sempre parlato volentieri perché, come sappiamo, la bocca parla di ciò di cui è pieno il cuore (Lc 6,45).
Meditare sulla morte è meditare sulla libertà
Il mio cuore era (ed è tuttora, nonostante i suoi gravi problemi di lubrificazione) coinvolto nell’esistenza o meno di quei muri. E con questo difficile apprendistato, che mi ha già consumato, con scarso successo, molte energie. Come a tutti, penso. Sono stato bocciato molte volte in questo tipo di esame, sono ancora a scuola. Strada facendo, arrivano nuovi compagni di classe e io torno sovente a frequentare i vecchi, cronici bocciati, come me. Uno di loro scrisse che meditare sulla morte è meditare sulla libertà. Chi ha imparato a morire, ha disimparato a servire. Saper morire ci esonera da ogni soggezione e costrizione.
Può sembrare strano, però, che questo saggio che pensava fosse prossimo alla
morte – ma allo stesso tempo ha saputo associarla alla libertà – sia colui che mi fornirà la chiave necessaria per chiudere l’arco di queste riflessioni inaugurali, con cui mi presento e saluto (e anche esorto) il mio lettore (più che realistico, cerco di essere ottimista: almeno un lettore dovrà fare i conti con queste righe!). Fu Michel Eyquem, signore di Montaigne – colui che si rinchiuse nella sua torre in Guascogna, e pose una barricata di mille libri tra sé e il tumulto per conquistare la sua libertà spirituale – fu lui, ripeto, ad avvertire il suo lettore (sempre nel singolare!) essere lui stesso soggetto del suo scritto più importante.
Ed è stato con lui, più di tre decenni fa, in un momento di grande angoscia e dopo
una grande perdita, che ho scoperto ciò che tutti sanno. O che crede di sapere, o che dovrebbe sapere, ovviamente. Che per essere saggi e raggiungere quella libertà di fronte alla morte di cui sopra, dobbiamo prendere la decisione di vivere. E vivere in modo tale che, per essere felici, non si abbia bisogno di altro che dell’atto stesso di vivere. Il vero sapiente, scriveva il saggio recluso, è colui che ha fatto una promessa a se stesso. Non maledire mai la vita e non fare altro che estrarre tutte le conseguenze dalla sola decisione di vivere.
Il coraggio è la capacità di rischiare
Nel complicato tessuto della vita, gli incontri sono, quasi tutti, fortuiti: sono
dovuti al caso che governa tutte le azioni della natura, come già sapevano gli atomisti. Gli incontri che qui mi interessano sono quelli che derivano da un atto di libertà. Ho scelto questo tema della libertà davanti alla morte e alla vita – nonostante la sua enorme complessità e il suo carattere di problema insolubile – come buon auspicio per iniziare la nostra probabile convivenza in questo spazio di L’Incontro, che è, in sostanza, uno spazio di libertà. Fondato diversi decenni fa, L’Incontro nasce sotto l’egida della resistenza e della difesa delle libertà individuali e della libera espressione. È anche uno spazio per il coraggio. E il coraggio è la capacità di rischiare, la disponibilità ad accettare anche il dolore e la delusione; è anche la capacità di scegliere determinati valori e di saltare in avanti e scommettere su quei valori. È la capacità di decidere in favore della vita.
Luiz Roberto Evangelista