Se un uccello nasce e cresce in gabbia, crede che la gabbia sia il mondo

Così è stato per Lea Ypi (si legga Upi), oggi docente di filosofia politica alla London School of Economics di Londra, ma nata e cresciuta nell’Albania in pieno regime di Enver Hoxha. Qui si era trovata a credere ciecamente a quello che le insegnavano, e cioè che il socialismo era una fase di transizione dalla dittatura del proletariato al comunismo, il quale, alla lunga, si sarebbe attuato con lo scioglimento dello Stato e la liberazione totale dell’uomo. Un processo che Marx aveva esposto, ma che, al di là dell’utopia che rappresentava, lo zio Enver applicava – come facevano tutti i regimi comunisti – in chiave di potere personale, gabbando come dittatura del proletariato la propria e nemici del popolo quanti osavano solo accennare a una pur timida critica ad essa.

Un bisnonno importante

Una manipolazione tale che condizionava anche la famiglia di Lea, pur consapevole – a esclusione della bambina e poi ragazza del tutto ignara delle sue origini – di non essere una famiglia come le altre, essendo nientemeno che discendente di quel Xhaferr Ypi, ex Primo ministro albanese e capo di stato a interim durante l’occupazione italiana. Parentela che non abilitava nessuno degli Ypi a scuole o ruoli importanti.

E, perciò, molti di essi erano stati detenuti per anni in carcere e la cui assenza veniva giustificata, agli occhi di Lea, da parte dei genitori e della nonna (una ex nobildonna alla corte di re Zog) per non spaventarla, come motivata da studi in università lontane. Solo molto più tardi, a liberazione avvenuta, avrebbe saputo che Xhaffer Ypi era il suo bisnonno. “Per tutta la sua vita, quel cognome aveva annientato le speranze di mio padre. Gli aveva impedito di coltivare la sua passione e studiare matematica. Lo aveva costretto a umiliarsi di continuo, chiedendo scusa per la sua ‘biografia’.

File per accaparrarsi un pezzo di formaggio o un pugno di riso

In questa oscurità Lea, poveretta, stravedeva per il comunismo, certa che, guidato dalla dittatura del proletariato, avrebbe assistito allo scioglimento dello Stato e alla liberazione totale dell’uomo. Un uomo non più minacciato dal capitalismo che incombeva ai confini, dove la libertà non era per tutti, come in Albania, bensì soltanto per gli sfruttatori. In Albania, invece, “lavoravamo, ma per noi stessi, non per arricchire i capitalisti, e condividevamo il frutto del nostro lavoro. Nel nostro paese non esistevano né avidità né invidia. Le esigenze di tutti venivano soddisfatte, e il Partito ci aiutava a coltivare i nostri talenti”. L’aspetto assurdo era che fossero proprio la miseria e l’oppressione politica ed economica in cui vivevano a generare le maggiori avidità e invidie.

Il libro, in questo senso, è ricco di ricordi della diffusa, generale penuria di cibo innanzitutto e di altre, troppe cose elementari per cui le file per accaparrarsi un pezzo di formaggio o un pugno di riso (a seconda dei giorni) o il pane o un paio di calze era all’ordine del giorno.

Una lattina di coca-cola comprata clandestinamente

Quanto a invidia, una scenetta riguarda una lattina di coca-cola ammaccata che la madre di Lea aveva comprato clandestinamente e che aveva messo a centro tavola sul miglior centrino fatto con le proprie mani, e poi rivisto – rubato – sul tavolo della vicina, invidiosa, di quel trofeo, per cui le due famiglie, fino allora amiche, finirono col chiudere i rapporti. Spiate, invidie, rivalità, in un paese la cui propaganda parlava di solidarietà o “bene comune”, dando per scontato che la repressione e l’azione preventiva e carceraria della polizia politica riguardasse solo i “nemici del popolo”. Erano tanto liberi che alle elezioni, in cui partito e candidato unico era Enver Hoxha, si faceva a gara per andare a votare al solo scopo di dimostrare il proprio attaccamento al capo, tant’è che già alle nove del mattino le elezioni erano concluse con il nome del vincitore acclamato a maggioranza assoluta.

Saccheggi, attacchi civili alle caserme militari e duemile morti

Lea, naturalmente, avrebbe assistito anche al crollo del comunismo e a un “libera tutti” che, come negli altri paesi comunisti privi di un’economia che producesse ricchezza, se non quella che servisse al mantenimento delle oligarchie e alle forze di repressione non si presentò nella sua luce migliore. Infatti, alle prime elezioni libere, dopo 50 anni di vita a una dimensione, sembravano incredibili le possibilità che si presentavano alle persone. Per cui, al contrario del maggior tempo che la transizione – e una classe dirigente adeguata – avrebbe richiesto, il Paese precipitò in un caos che conobbe il suo culmine nel 1997 quando l’economia improvvisamente drogata diede fuoco alle polveri. Scrive Lea Ypi: “Seguirono saccheggi, attacchi civili alle caserme militari e il più grande esodo di massa nella storia del paese. Oltre duemila persone persero la vita”.

Una guerra civile vera

Una vera guerra civile che nulla ha a che fare con il liberalismo economico, ma con una parodia di questo seguita all’esaltazione di qualcosa che la popolazione, nell’ebbrezza della gabbia aperta, era spinta a sperimentare, favorendo coloro che avevano meno scrupoli e meno o nessun freno inibitore, ovvero la criminalità. Una reazione inevitabile non solo in Albania ma in tutti i Paesi comunisti privi di quella cultura democratica, che può crescere solo con il tempo e una classe dirigente che non poteva essere quella allevata dalla paura e dalla cortigianeria e appiattita sulla volontà di un uomo nel suo esercizio più di terrore che di governo.

Albania malata di troppo Stato

La prima a rendersi conto del futuro che serviva all’Albania, malata di troppo Stato, è stata la madre di Lea, che si dà coraggiosamente alla politica e del cui percorso riproduco qui un passo significativo che mi sembra auspicabile non solo per l’Albania, ma per chiunque ambisca a vivere libero, da cittadino responsabile, e non da suddito, qualsiasi sia lo Stato.

Soprattutto (la madre) diffidava dello Stato. Era allergica alle discussioni astratte sull’eguaglianza o il ruolo delle istituzioni nella promozione della giustizia. Chiederti se qualcosa dovesse essere in un modo o nell’altro significava già partire col piede sbagliato. Non dovevi mai chiederti che cosa lo stato poteva fare per te, solo in che modo potevi ridurre la tua dipendenza dallo stato. Sospettava che tutti i dibattiti sull’azione positiva e le quote rosa fossero specchietti per le allodole, il cui scopo reale era incrementare il potere dell’apparato burocratico di infiltrarsi nella tua vita e generare maggiori opportunità di corruzione degli individui parassitari. Per lei lo stato non era mai stato un veicolo di progresso. Non aveva mai creduto nel potere della collettività”.

Anche perché questo potere, aveva capito, è una farsa dietro la quale si nascondono gli Hoxha che, a solo proprio interesse personale, si arrogano il diritto di parlare a nome della collettività.

Diego Zandel*

*L’amministrazione comunale dell’isola di Kos, in Grecia, ha conferito la cittadinanza onoraria al nostro Diego Zandel, scrittore legato all’isola per aver sposato una donna, ora scomparsa, originaria della stessa da parte materna. Diego Zandel frequenta l’isola dal 1969. Come scrittore ha qui ambientato due romanzi “L’uomo di Kos” e “Il fratello greco” e alcuni racconti, raccolti nel libro “Verso est – racconti di oltre il confine orientale e dell’Egeo”. E’ autore anche di una guida “Manuale sentimentale dell’isola di Kos”, in cui racconta i luoghi e la gente del posto che ha potuto conoscere dall’interno grazie agli intensi rapporti famigliari. Kos è famosa per aver dato i natali a Ippocrate, ma anche per la sua ricca storia nel corso della quale, dopo il lungo periodo ottomano, non meno rilievo ha avuto l’Italia, alla quale è appartenuta negli anni tra le due guerre, lasciando testimonianze importanti, visibili soprattutto nella città di Kos ricostruita dagli italiani, secondo gli schemi dell’architettura razionalista, in seguito al terremoto del 1933. Dopo l’8 settembre 1943 è stata vittima dell’occupazione tedesca, nel corso della quale, il 6 ottobre dello stesso anno, nella campagna e negli acquitrini della località di Linopoti sono stati uccisi 103 ufficiali italiani di stanza sull’isola, 66 corpi dei quali, recuperati alla fine della guerra, riposano nel Sacrario militare dei caduti d’oltremare di Bari.

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