Quella montagna dove tutto si declina attraverso il trinomio altitudine, asperità e clima. Un trinomio imperfetto, incompleto, a ben vedere, perché bisognerebbe allargarlo alla difficoltà dei collegamenti, ai costi sociali, alla tutela e promozione di una economia in grado di produrre reddito, alla cura del territorio. A tutte quelle azioni senza le quali è impossibile frenare lo spopolamento e un giorno, magari, invertire la tendenza all’abbandono delle realtà più marginali. Tornando alla Carta, che per molti rappresenta una vera e propria “Costituzione delle terre alte”, si può notare che, in essa, s’incrociavano due aspetti decisivi: l’unicità del territorio montano e il bisogno di autogoverno. Da una parte gli alpeggi, le valli, i boschi che furono luogo di rifugio e di “formazione” per una generazione di democratici che lo scelsero come teatro della lotta di Liberazione; dall’altra gli aneliti d’autogoverno che le popolazioni alpine hanno sempre manifestato e che, in quegli anni, – in qualche modo – si esemplificarono nelle Repubbliche partigiane e, in particolare, in quella dell’Ossola, con il suo governo dei “quaranta giorni di libertà”. C’è, a ben vedere, un nitido legame tra la Resistenza, un progetto di società e di collocazione delle montagne sulla scena nazionale.
Nel corso della riunione, non senza discussioni piuttosto accese, vennero esaminati e discussi alcuni memoriali, preparati nelle settimane precedenti, che sintetizzavano le richieste di particolari forme d’autonomia per le valli alpine. Ecco, dunque, la ragione che sta alla base della “Carta di Chivasso”, rendendola – ancora oggi – attuale e moderna. Buona parte del documento, che venne redatto al termine dell’incontro, è dedicata alla rivendicazione di una forte autonomia delle vallate alpine nel campo politico-amministrativo (si fa esplicito riferimento al modello cantonale elvetico), in quelli della cultura e dell’istruzione (l’obiettivo è rappresentato dal bilinguismo che costituiva un fatto importante in ambienti di frontiera e di forte emigrazione), nonché in quello dell’economia (comprendente, oltre a un più attento controllo sulle risorse locali, anche l’ idea/forza di forme di autonomia fiscale). In tal modo – secondo gli estensori – si sarebbero cancellate le conseguenze, particolarmente rovinose per le vallate alpine, della politica di oppressione delle culture locali attuata costantemente dallo Stato nazionale centralizzatore, esasperata dal regime fascista.
Si guardava con occhi nuovi e con ampio respiro al territorio alpino, inquadrandone il futuro nell’ottica di un complessivo rinnovamento dello Stato italiano in direzione “di un regime federale repubblicano a base regionale e cantonale“, inteso come “l’unica garanzia contro un ritorno della dittatura“. Ma non si fermarono lì ed andarono oltre, ipotizzando la realizzazione di un regime federale, a livello italiano, da inserire, a sua volta, nella più larga e audace prospettiva della Federazione europea. Il perché è evidente, e i valdesi lo sostennero con energica passione: a loro giudizio il federalismo “rappresenta la soluzione del problema delle piccole nazionalità e la definitiva liquidazione del fenomeno storico degli irredentismi, garantendo nel futuro assetto europeo l’avvento di una pace stabile e duratura“. Un parallelismo tra federalismo interno e federalismo sovranazionale, che si manifestò come risultato dell’incontro tra due visioni che, pur condividendo gli obiettivi, si distinguevano nell’individuazione delle priorità.
Da una parte, l’autonomismo di Chanoux che assegnava la priorità strategica al federalismo interno (da cui nasce la base teorica dell’autonomismo regionale valdostano) e, dall’altra, la visione di Rollier, legato ai federalisti di Ventotene, che sosteneva, invece, quella del federalismo sovranazionale. Rollier era un uomo deciso e dalle idee molto chiare. Insieme ad Antonio Banfi, qualche mese prima, il 26 luglio del 1943, aveva redatto il “manifesto” dei docenti universitari milanesi che chiedevano l’abolizione delle discriminazioni razziali, politiche e religiose e il reintegro dei docenti perseguitati dal fascismo.Lo scopo che lo animava era quello di dimostrare come gli Stati Uniti d’Europa fossero l’obiettivo prioritario della lotta politica. “Il problema dell’Unione Europea“, sosteneva con energia, era di farla “ora e non in un indeterminato futuro“, in quanto la Federazione Europea rappresentava l’unica “soluzione armoniosa dei problemi europei“; che non vi erano altre vie percorribili, “poiché la sola alternativa ad essa è l’autodistruzione dell’Europa, della sua cultura e della sua multiforme civiltà in una serie infinita di guerre che prenderebbero vieppiù il carattere di guerre civili“.
L’autonomismo era, dunque, per Rollier un aspetto – subordinato – del federalismo, la cui prospettiva era europea e cosmopolita. Lo animava la consapevolezza che le battaglie per la valorizzazione delle “piccole patrie“, non innestate in un quadro politico di più vasto respiro, rischiavano inesorabilmente di degenerare nel micro-nazionalismo se non in qualcosa di peggio (com’è accaduto in molte parti dell’arco alpino europeo in epoche recenti). Dunque, la Carta di Chivasso – che pure è giustamente considerata un momento importante nel processo che ha portato all’autonomia della Valle d’Aosta e delle altre Regioni a Statuto speciale e all’inserimento nella Costituzione repubblicana delle disposizioni relative alle Regioni a Statuto ordinario, alle Autonomie locali e alla tutela delle minoranze – riflette in larga misura la visione che Rollier aveva del problema. Una visione profondamente radicata tant’è che egli continuò questa battaglia anche dopo la Liberazione. A tal proposito scrisse, con lo pseudonimo di Edgardo Monroe, lo “Schema di Costituzione dell’Unione federale europea”.
Ma c’è un altro tema molto attuale al quale gli estensori della Carta dedicarono un certo rilievo. Il riferimento è agli aspetti economici e sociali. A tal proposito venivano ipotizzate una forma di “federalismo fiscale” (una tassazione locale commisurata alle zone economiche, alla ricchezza della terra, controllata ed esatta localmente), la riforma agraria, il controllo delle opere pubbliche ed il potenziamento dell’industria, da affidare – secondo i casi – all’amministrazione regionale o cantonale. Non veniva nemmeno esclusa la possibilità di un’organizzazione più collettivistica dell’economia, ed in questo caso le aziende aventi carattere locale avrebbero potuto essere affidate al (o controllate dal) potere pubblico del territorio. In questa considerazione si rileva come inizi a farsi strada l’idea della tassa di scopo, del ritorno alla montagna di parte delle risorse che questa mette a disposizione della collettività più generale. Idea su cui ancora oggi ci si interroga e si lavora. Oggi come allora la questione centrale resta la stessa, intatta: il sostegno alla montagna è un dovere costituzionale? Domanda retorica ma non banale. Ovviamente, se si pensa al debito che l’intero Paese ha contratto con i montanari, con le popolazioni alpine, è evidente che sì, sostenere le “alte terre” della nazione rappresenta un imprescindibile dovere.
La storia del dopoguerra, del resto, è nota. Al pari della Resistenza, che non sarebbe stata possibile senza la montagna, nemmeno la ricostruzione, il “miracolo economico”, un nuovo e diffuso benessere si sarebbero realizzati senza quell’esercito di braccia che dalle vallate del Piemonte e delle altre regioni affluì verso le fabbriche dei fondovalle e delle pianure. Così, col passare del tempo, il debito del Paese verso gli abitanti della montagna non soltanto non è stato saldato ma è aumentato drammaticamente. Negli ultimi decenni si è tentato di limitare i danni ma, realisticamente, bisogna prendere atto dei limiti, dei modesti risultati e dell’enorme distanza – in termini di redditi, possibilità economiche e qualità della vita – che intercorre tra pianure e montagne, tra città, centri urbani di pianura e piccoli paesi in quota.
Oggi, più che mai, la montagna non vive una stagione felice e il disagio aumenta: scarsamente rappresentata, malvista e mal considerata, sottoposta al tiro al bersaglio da chi la ritiene più un problema che una risorsa. Eppure il tema resta lì, come un convitato di pietra. Lo si può ignorare, ma non si può impedire che torni in scena, magari debole, malconcio e – sempre più spesso – sfiduciato e rabbioso: difendere l’ambiente e il territorio, sostenerne lo sviluppo moderno e di qualità, restituendo ai montanari parte dei proventi che altri incamerano sfruttando le risorse naturali di questi territori (come nel caso dell’acqua per l’energia idroelettrica o del legno). Al fine di evitare che la montagna “frani a valle”, diventa urgente quanto inevitabile reimpostarne lo sviluppo a tutto tondo (economico, sociale, istituzionale), facendo leva sulle “buone premesse” della Carta di Chivasso. Equivarrebbe ad un risarcimento, seppure tardivo: un atto di equità, di riequilibrio e di lungimiranza. Un segno concreto di rispetto e riconoscenza nei confronti di quei “padri della Patria” che pensarono e scrissero in una fredda giornata invernale del 1943 quello straordinario e intuitivo documento, pietra miliare dello spirito autonomistico delle nostre valli e delle nostre montagne.
Marco Travaglini