“Guardate cosa sta succedendo! Dobbiamo mantenere il nostro Paese sicuro. Guardate quello che sta succedendo in Germania, guardate quello che è successo la notte scorsa in Svezia. In Svezia, chi può crederci? Stanno avendo problemi che non avrebbero mai pensato di avere”. Così disse Donald Trump il 17 febbraio 2017 durante un comizio a Melbourne, in Florida. Alla Casa Bianca si era insediato appena 28 giorni prima, e fu una delle sue prima gaffes presidenziali da incidente internazionale. L’ambasciata svedese a Washington chiese spiegazioni. “Abbiamo posto la domanda al Dipartimento di Stato. Stiamo cercando di avere chiarezza“, disse la portavoce del ministero degli Esteri svedese, Catarina Axelsson. “Svezia? Attentato terroristico? Cosa si è fumato? Le domande abbondano”, commentò su Twitter l’ex-primo ministro svedese Carl Bildt, conservatore. “Cosa è accaduto in Svezia venerdì sera? Hanno preso gli autori del massacro di Bowling Green?”, ironizzò a sua volta via Twitter Chelsea Clinton. Riferimento a un massacro jihadista mai avvenuto in una cittadina del Kentucky, che la consigliere di Trump Kellyanne Conway aveva però citato più volte, per poi spiegare la sua teoria dei “fatti alternativi”. Di fronte alle veementi parole del ministro degli Esteri Margot Wallström sulla “tendenza generale” a diffondere “informazioni sbagliate”, il presidente spiegò che aveva visto un servizio televisivo della Fox. Ma quel video non parlava di attacchi recenti, bensì dell’all’afflusso di migranti in Scandinavia e di un attentato con due feriti che era avvenuto sì a Stoccolma, ma ben sette anni prima. Alla fine, in molti hanno sospettato che semplicemente Trump ascoltando la tv avesse capito “Sweden” invece di “Sehwan”: località del Pakistan in cui effettivamente nel giorno indicato c’erano stati 85 morti nell’attacco di un kamikaze jihadista. E che avesse mescolato le due notizie.
Indubbio che Trump avesse sproloquiato su cose di cui non sapeva. Manco a farlo apposta, però, in capo a qualche ora Rinkeby, sobborgo alla periferia di Stoccolma abitato al 90% da immigrati, divenne sul serio un campo di battaglia, dopo che la polizia aveva arrestato una persona sospettata di traffico di stupefacenti. Persone non identificate, alcune delle quali col volto coperto da maschere, lanciarono pietre contro i poliziotti, diedero alle fiamme alcune auto e saccheggiarono negozi. Rinkeby, con quell’altro quartiere di Stoccolma che si chiama Husta e che pure è abitato per il 90% da immigrati, con quel quartiere di Malmoe che si chiama Rosengard e dove è nato Ibrahimovic, non sono che i più noti tra le 40 no go zone della Svezia. Luoghi dove la posta non viene più consegnata, e la stessa Polizia ha paura ad entrare.
Appena una cinquantina di giorni dopo, poi, il 7 aprile del 2017 un attentato terrorista ebbe luogo effettivamente a Stoccolma, a opera di un richiedente asilo uzbeko simpatizzante per l’Isis. In pieno centro, sull’arteria pedonale Drottninggatan, un camion travolse infatti la folla causando la morte di 5 civili e di un cane, prima di schiantarsi contro la vetrina di una catena di supermercati. A rubare un camion del famoso birrificio svedese Spendrups mentre stava facendo una consegna e ad usarlo come arma il 39enne Rakhmat Akilov. Respinta la sua domanda di asilo, era ricercato per essere espulso. Lui disse di aver agito per vendicare i bombardamenti sull’Isis, di aver pianificato l’attacco eseguendo anche una ricognizione della strada pedonale scelta per la strage, e anche di aver ricevuto ordini diretti da membri del gruppo jihadista in Siria. Secondo i testimoni nel zigzagare l’assassino puntava ai bambini, e una undicenne di ritorno da scuola è stata infatti tra le vittime. Immediatamente l’antiterrorismo effettuò un blitz a sud di Stoccolma, arrestando altre tre persone collegate all’uzbeko.
Due giorni dopo il primo ministro Stefan Löfven risponde con l’annuncio che il governo intende cambiare le leggi sull’immigrazione per facilitare l’espulsione delle persone la cui richiesta d’asilo è stata rifiutata. Da ricordare che il premier è socialdemocratico, e che il governo è una coalizione di sinistra tra socialdemocratici e verdi. Ma in realtà i nodi erano venuti al pettine già nel 2015, quando nell’ambito della grande ondata di immigrazione originata attorno alla crisi siriana 163.000 rifugiati furono accolti in Svezia. Il doppio rispetto al 2014 Tra questi, 35.400 minori non accompagnati: prima provenienza, l’Afghanistan. Ma quando nell’autunno il numero arrivò a 80.000 in due mesi qualcosa iniziò a cambiare, in una politica di accoglienza tradizionalmente generosa. Alcuni osservatori hanno ipotizzato anche un ruolo degli attacchi di Parigi del novembre 2015, ma in realtà già il 23 ottobre i due partiti di governo avevano raggiunto sul tema un grande accordo bipartisan con i quattro partiti tradizionali del centro-destra: moderati (conservatori), liberali, centristi e democristiani. Restarono fuori, insomma, solo le estreme: da una parte i post-comunisti; dall’altra quel nuovo partito dei Democratici Svedesi che era cresciuto appunto attaccando le politiche di accoglienza. Tra i contenuti dell’accordo: un nuovo sistema di permessi di residenza solo temporanei; garanzie finanziarie per i ricongiungimenti familiari; una legge per costringere tutte le municipalità a contribuire alla sistemazione dei rifugiati, in modo da meglio ridistribuire l’onere attraverso il Paese.
Il 12 novembre del 2015 il governo ristabilisce dunque un Sistema di controlli temporanei alle frontiere, con effetto immediato. È una sospensione della Convenzione di Schengen, che prevede anche di verificare l’identità di ogni singolo individuo in transito dalla Danimarca attraverso il Ponte di Öresund. Quest’ultimo punto suscita una tempesta di proteste tale, che l’8 dicembre si decide di lasciar perdere. Ma il 17 dicembre con 175 voti a favore, 39 contro e 135 astensioni il Riksdag approva una nuova legge che introduce i controlli di identità. Dal 4 gennaio 2016, dunque, senza una carta d’identità, una licenza o un passaporto non scaduti non si può più passare il confine con la Svezia: la prima rottura dell’Unione Nordica sui Passaporti dal 1954. Come conseguenza immediata, 12 ore dopo il primo ministro danese Lars Løkke Rasmussen annuncia a sua volta anche il governo di Copenaghen attuerà a sua volta controlli analoghi lungo il confine con la Germania.
In effetti, la Svezia rientra poi integralmente in Schengen già dal 9 marzo del 2016. Ma il governo svedese insiste che bisogna espellere al più presto gli 80.000 su 163.000 richiedenti asilo la cui domanda è stata respinta, e nel frattempo la situazione inizia a degenerare già il 30 gennaio del 2016 per un pogrom anti-stranieri che si tiene in pieno centro di Stoccolma, nell’ampia piazza pedonalizzata Sergels Torg. Secondo quanto riferito dalla polizia e dai testimoni intervistati dal quotidiano Aftonbladet, tra i 50 e i 100 uomini, vestiti di nero e col volto nascosto da maschere o passamontagna, iniziano ad aggredire immigrati, proprio nella piazza dove tradizionalmente si radunano giovani, emarginati e “minori non accompagnati”; locuzione quest’ultima con cui in Svezia si indicano i minori arrivati sul suolo europeo senza i genitori. Diverse persone “con l’aspetto straniero” sono molestate. Alcune testimoni riferiscono anche di gente picchiata, e gli aggressori distribuiscono volantini con l’avvertimento: “i bambini di strada nord-africani riceveranno la punizione che meritano”.
E sì che le autorità erano state informate di “un progetto di aggressione contro i migranti minori non accompagnati nel centro di Stoccolma”, ed avevano dispiegato sul territorio agenti anti-sommossa, facendo anche sorvolare il centro cittadino da elicotteri. E ci sono anche degli arresti. Un uomo di 46 anni, che ha sferrato un pugno al viso di un poliziotto in borghese. Tre persone, tra i 20 e i 30 anni, che sono state arrestate e poi rilasciate per disturbo alla quiete pubblica. Il possessore di un coltello, che è stato incriminato per possesso di arma vietata. La polizia punta il dito su alcuni gruppi radicali neonazisti: una galassia d’altronde già oggetto delle denunce di Stieg Larsson, lo scrittore che dopo la morte è diventato famoso per la serie di romanzi gialli che inizia con Uomini che odiano le donne, ma che da vivo fu soprattutto un autore di pamphlet e rapporti sui gruppi xenofobi. Compresi quei Democratici Svedesi che nel frattempo sono diventati il terzo partito del Paese, e che nel Parlamento Europeo stanno in quel momento al gruppo con Grillo e Farage. Particolarmente sospettato dalla polizia è Nordfront: sito del movimento neonazista Smr, su cui prima del pogrom è apparso un annuncio. “Cento hooligans dei club di Aik e Djurgarden sono pronti a far pulizia dai criminali immigrati dell’Africa del Nord”.
Il contesto è quello del Paese che nel 2015 aveva non solo come ricordato il numero pro capite di richiedenti asilo più alto d’Europa, ma anche statistiche sulla violenza sessuale che lo mettevano in testa al Continente. In realtà ciò è dovuto soprattutto a una legislazione ultra-femminista che rende il concetto di stupro particolarmente ampio, come si accorge a proprie spese Julian Assange. Però sul web circolano statistiche attribuite a “fonti anonime della polizia svedese” secondo cui i maschi musulmani rappresenterebbero il 2% della popolazione residente in Svezia, ma sarebbero responsabili del 77,6% degli stupri. Fake news, in realtà. Ma danno l’idea ulteriore del mondo in cui il clima si sia deteriorato, in un Paese che per i richiedenti asilo in particolare era considerato il paradiso dell’accoglienza. E si basano comunque su qualche episodio vero. In particolare, il raid di piazza Sergels Torg avviene cinque giorni dopo la morte di Alexandra Mezher: una 22enne che lavorava in una struttura per l’accoglienza dei teen-agers rifugiati, e che viene accoltellata da uno degli ospiti. Si tratta di ragazzini compresi tra i 14 e i 17 anni: alcuni ancora in attesa dell’asilo; altri che lo hanno ottenuto, ma sono ancora sistemati lì. Uno di loro, un somalo, pugnala la ragazza. Poi si scoprirà che non ha i 15 anni che afferma, ma almeno 18.
In realtà l’episodio, avvenuto alla Hem för vård eller boende, “Casa di accoglienza e cura” (Hvb), di Mölndal, nel sudovest della Svezia, non può essere letto schematicamente come un episodio di guerra tra svedesi e stranieri. Primo, perché sono comunque gli altri ospiti del centro a bloccare subito l’assassino, consegnandolo alla Polizia. Secondo, perché la vittima era anche lei di origine una “straniera”: una cristiana libanese. Però era stata lei stessa a lamentarsi con la madre e a dirle di avere paura, per il fatto che nel centro c’erano anche ragazzi che in realtà avrebbero avuto fino a 25 anni. Poco prima dell’omicidio la Polizia aveva chiesto appunto almeno 4100 assunzioni, per far fronte ai problemi provocati dall’ondata di rifugiati. Dopo aver visitato il centro Löfven dice che in Svezia stanno venendo troppi minori non accompagnati, mentre l’autorevole quotidiano Expressen in un editoriale chiede l’espulsione dei migranti colpevoli di crimini.
Il dubbio sempre più diffuso è che la gran parte di questi “minorenni” sia in realtà costituita da maggiorenni che mentono sull’età per sfruttare i relativi vantaggi offerti dalla legge svedese. Appunto per provvedere alle esigenze di questi minorenni sono stati creati centri come l’Hvb di Mölndal. Ma tra 2014 e 2015 il numero di minacce o atti di violenza denunciati nei centri rifugiati nel Paese è raddoppiato a sua volta, fino a raggiungere quota 322. A volte si tratta di scontri tra gli stessi ospiti dei centri; a volte si tratta di contrasti tra gli ospiti e i membri dello staff che lavorano negli Hvb. Poco prima del delitto Mezher la Svezia aveva appena espulso in Danimarca un richiedente asilo tunisino che aveva scioccato il Paese in un video in cui lo si vedeva prima tentare di derubare una vecchietta e poi aggredire la mamma con bambini che aveva cercato di impedirglielo.
“Mezzo milione di immigrati disoccupati in Svezia sono una bomba a orologeria”, denuncia nell’ottobre del 2017 l’ex-ministro delle Finanze socialdemocratico Kjell-Olof Feldt. Due mesi dopo Magdalena Andersson, anche lei socialdemocratica e ministro delle Finanze in carica, ammette in una intervista che l’integrazione degli immigrati non funzionava bene neanche prima del 2015, ma che in seguito la situazione è anche peggiorata. Insomma, il Partito Social Democratico secondo lei dovrebbe comprendere che la Svezia non può ricevere più migranti di quanti non ne possa assorbire.
Un sensibile sismografo è il voto per i Democratici Svedesi: il già citato partito anti-immigrati, anche con imbarazzanti contiguità con organizzazioni filo-naziste. Lo 0,025% nel 1988; lo 0,1 nel 1991; lo 0,3 nel 1994; lo 0,4 nel 1998; l’1,4 nel 2002; il 2,9 nel 2006; il 5,7 nel 2010, quando entrano per la prima volta al Riksdag con 20 deputati. Ma passano al 12,9% con 49 deputati nel 2014, e addirittura al 17,5 con 62 nel 2018. In trent’anni sono insomma passati da 1118 a 1.135.627 voti. A differenza di partiti simili in altri Paesi scandinavi, nessuno si vuole alleare con loro, costringendo però sinistra e centro-destra a interrompere la tradizione che voleva i due “campi” ben distinti, e ad accordarsi tra di loro. L’attuale governo, in particolare. È una coalizione tra socialdemocratici e verdi che si sostiene grazie all’appoggio esterno di centristi e liberali, espresso in un accordo formale. Insomma, sul tema dell’immigrazione il sistema politico svedese si sta risistemando completamente.
Maurizio Stefanini
Quinta puntata dell’inchiesta di Maurizio Stefanini sulla politica dell’immigrazione nei vari paesi europei. Dopo la Spagna, la Francia, la Germania e il Regno Unito, la Svezia.
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