È forse questa l’immagine più simbolica riguardo ai dilemmi della Germania verso il mondo dell’emigrazione. Un tipo di contraddizioni di recente alimentato in Italia dalla polemica su Carola Rackete: la capitana della Sea Watch che ha portato in Italia un carico di migranti soccorsi in mare malgrado i divieti e gli avvertimenti di Salvini, e speronando anche una imbarcazione della Guardia di Finanza. Eroina per molti, pirata per altri, ma comunque un ennesimo esempio di quello stereotipo secondo il quale i tedeschi si commuovono per la sorte dei migranti, ma a condizione che restino parcheggiati da qualche altra parte.
In effetti, secondo i dati dell’Ocse è la Germania per i migranti la seconda destinazione più popolare dopo gli Stati Uniti. Situata però al centro-nord d’Europa, ha una naturale protezione geografica verso i grandi flussi di oggi, per via di una fascia di Paesi che le fanno da Stato cuscinetto e tra i quali sta in prima fila proprio l’Italia. Ciò non significa che qualche dramma dell’emigrazione non avvenga anche là. Ogni tanto qualche straniero che cerca di entrare clandestinamente annega nelle acque dell’Oder e del Neisse, al confine con la Polonia. Altri perdono la vita nascosti nei tir: in seguito ad incidenti stradali, per soffocamento o schiacciati dal peso delle merci. Altri ancora muoiono assiderati, viaggiando nascoste nel vano carrello di aerei diretti negli scali europei. Ma comunque è poco, rispetto a quanto non si veda nel Mediterraneo.
In più, solo dal primo gennaio 2000 ha introdotto quel limitato ius soli per cui è cittadino tedesco non solo più il figlio di un cittadino tedesco, ma anche chi nasce in Germania dal figlio di uno straniero che risiede in Germania da almeno otto anni ed ha un permesso di residenza permanente da almeno tre. E solo nel 2005 si è dotata di una nuova legge con cui ha riconosciuto di essersi trasformata da antico Paese di emigrazione in Paese di immigrazione. Però sono facilitate categorie come “professionisti altamente qualificati” o “scienziati” mentre i lavoratori non qualificati si trovano di fronte a un mercato del lavoro chiuso. Dopo che tra 2013 e 2014 il numero dei richiedenti asilo era cresciuto del 138%, il ministero dell’Interno ha stabilito che i 5 mesi e mezzo fino ad allora richiesti per decidere sulle richieste di asilo erano troppi, ed ha introdotto l’identificazione attraverso le impronte digitali. Nel 2014 13.000 persone cui era stato rifiutato l’asilo hanno lasciato la Germania volontariamente: 9400 dopo aver ottenuto in cambio un contributo finanziario. Nel 2015 20.888 stranieri sono stati espulsi.
In effetti, quando arrivò il flusso migratorio originato dalla guerra civile in Siria molti esponenti della classe dirigente tedesca ritennero che un flusso intenso di migranti in età lavorativa e con forti motivazioni potesse essere il modo migliore per risolvere una grave carenza di manodopera qualificata. “I richiedenti asilo saranno la base per il prossimo miracolo economico tedesco”, disse ad esempio il direttore esecutivo di Daimler, Dieter Zetsche. Angela Merkel, forse anche turbata per la storia della bambina palestinese, diede retta a questo tipo di consiglieri, decidendo quell’apertura delle frontiere che mise in crisi i partner europei e fece esplodere il consenso elettorale per il nuovo partito anti-immigrati dell’Alternativa per la Germania (AfD). Ma che la gran parte dei rifugiati in Germania non solo non riescono a trovare lavoro, ma neanche si trovano nella condizione per poterci riuscire, lo attestò nel dicembre del 2016 in una intervista allo Spiegel Joachim Moller: il direttore dell’Agenzia federale per la Ricerca sul Lavoro. Ad un ancora più alto livello, nel giugno del 2017 la cosa fu ribadita in un’intervista al Financial Times da Aydan Özoğuz: dal 2013 nel governo di Angela Merkel Commissario per l’Immigrazione, i Rifugiati e l’Integrazione con rango di Ministro di Stato. Prima cittadina di origine turca mai entrata a far parte di un governo tedesco ed esponente del Partito Socialdemocratico, la Özoğuz una volta ha pure detto che a parte la lingua una specifica cultura tedesca neanche esiste, viste da una parte le marcate differenze regionali e dall’altra parte l’apporto di una sempre più massiccia immigrazione. Ma non ebbe remore a spiegare che “per i prossimi cinque anni i tre quarti dei rifugiati in Germania non troverà un lavoro”. Per molti altri, anzi, previde che ci sarebbero voluti “fino a 10 anni”. A quell’epoca dai 322.000 del luglio 2016 i rifugiati in cerca di lavoro in Germania erano cresciuti a 484.000.
“C’è stato uno spostamento della percezione”, spiegò la Özoğuz al Financial Times. I primi rifugiati siriani che arrivarono in Germania erano stati infatti in gran parte “dottori e ingegneri”, e così gli imprenditori tedeschi si erano fatti la bocca buona. Ma poi ne erano venuti “molti, molti di più che erano privi di ogni qualifica”. Secondo l’Istituto di Ricerca sull’Impiego tedesco (Iab) solo il 45% dei rifugiati siriani in Germania aveva un diploma, e solo il 23% una laurea. Solo il 17% dei rifugiati in quel momento aveva trovato un qualche impiego, e ben 178.500 dei 484.000 in cerca di lavoro erano considerati ufficialmente disoccupati: non sono non avevano lavoro, ma neanche si erano iscritti a qualche corso professionale o per imparare la lingua. Il 27% in più rispetto al luglio precedente. Il numero delle società che avevano assunto rifugiati dal 2015 era salita dall’8 al 22%, ma solo l’8% di questi assunti faceva lavori qualificati.
Il bisogno di manodopera qualificata straniera, però, in Germania resta. Lo scorso dicembre in una intervista alla catena Funke Mediengruppe lo stesso Ispettore Generale dell’Esercito Eberhard Zorn avanzò infatti la proposta di reclutare cittadini di altri Paesi della Ue in particolare per supplire alla mancanza di personale specializzato. “Parliamo per esempio di medici o di specialisti nell’It”. “La Bundeswehr ha bisogno di personale, dobbiamo guardare in tutte le direzioni in un periodo di penuria di addetti qualificati”. Ci sarebbe però bisogno di una modifica di quella legge per cui al momento ogni soldato che opera nella Bundeswehr dovrebbe avere la nazionalità tedesca. L’idea però fu subito sostenuta dal Commissario parlamentare delle forze armate, il socialdemocratico Hans-Peter Bartels. Secondo lui “molti soldati hanno già origini straniere o doppia nazionalità”, e inoltre “la Bundeswehr non rappresenterebbe un’eccezione perché già da tempo abbiamo cittadini europei che lavorano nella polizia tedesca”, Secondo la Funke Mediengruppe sul tema sarebbero già stati sentiti i partner europei. Repubblica Ceca, Svezia, Belgio e Danimarca non sarebbero contrari, ma la Francia avrebbe espresso riserve: evidentemente sulla base del principio che una Legione Straniera deve averla solo lei! Quanto a Bulgaria, Romania, Slovenia e Grecia, il loro timore era una fuga di militari attratti dai più alti stipendi tedeschi. “Certo, dobbiamo stare attenti a non competere con le nostre controparti europee”, ha ammesso Zorn. La Bundeswehr darebbe comunque priorità ai cittadini europei che già vivono in Germania. I candidati dovrebbero parlare tedesco, presentare un certificato di buon comportamento della polizia e dichiarare la loro fedeltà allo Stato tedesco.
Un aspetto importante della politica tedesca sull’immigrazione è infatti che gli immigrati devono dimostrare la loro volontà di integrarsi. E un risvolto importante di questo approccio si vede ad esempio nelle leggi sull’integralismo. “I minareti non possono essere costruiti ostensibilmente più alti delle chiese”, avvertì la stessa Angela Merkel al congresso della Cdu del dicembre 2012. “Gli stranieri sono i benvenuti, ma le società parallele non hanno niente, ma assolutamente niente a che vedere con l’atteggiamento aperto”. Sia a Francoforte che a Colonia progetti di moschee hanno suscitato resistenza da parte degli abitanti e dei politici e le autorità municipali hanno trovato i difetti formali per bloccare i permessi di costruzione. D’altra parte lo stesso Tribunale Costituzionale Federale nel settembre del 2003 ha stabilito che le leggi regionali per vietare il velo a scuola non violano la tutela costituzionale sulla libertà religiosa. Unica limitazione: devono essere leggi, e non provvedimenti amministrativi.
In effetti il tema è altamente divisivo. Nel 2004, ad esempio, lo stesso presidente Johannes Rau si dice contrario. “Temo un bando del velo come primo passo sulla strada di uno Stato laicista, che proibirebbe i segni e simboli religiosi nella sfera pubblica. Io non voglio che ciò appaia. Questa non è la mia visione del nostro Paese, con i suoi secoli di influenza cristiana”. Ma secondo il Ministero dei Trasporti Federali esiste un divieto de facto di guidare veicoli a motore a donne in burqa o chador. Leggi sul divieto del velo islamico a scuola sono adottate da Baden-Württemberg, Baviera, Assia, Bassa Sassonia, Saar, Brema, Alta Renania-Westfalia e Berlino. A Berlino sono vietati negli edifici pubblici tutti i simboli religiosi compreso il crocifisso cristiano e la kippah ebraica. Nel 2017 è stata approvata una legge nazionale che vieta alle dipendenti pubbliche l’uso del velo durante l’orario di lavoro.
Ad alimentare l’allarme sul jihadismo è stata anche la reiterata ripetizione di eventi in cui l’Islam non c’entra direttamente, ma ha un ruolo indiretto come componente di una cultura maschilista in modo aggressivo. Il Capodanno del 2016, ad esempio, un’ondata di molestie sessuali a opera di immigrati si verificò in dodici città tedesche. Si iniziò con 30 denunce, che alla Polizia di Colonia furono presentate lunedì 4 gennaio, al termine del lungo ponte di vacanze. Quando la notizia si seppe altre donne trovarono il coraggio per presentarsi, fino ad arrivare il 17 febbraio a 1088 denunce, riguardanti 1049 vittime. Non solo donne, ma anche uomini. E poi crebbero ancora, fino ad arrivare a 1529 reati: tra essi, tre stupri veri e propri, e poi anche furti e violenze fisiche. Tutte parlarono di assalti coordinati e commessi da gruppi composti da tre i 2 e i 40 uomini, con tratti nord-africani o arabi. In tutto, una folla di oltre 1500 aggressori solo a Colonia. Ma altri 236 crimini furono denunciati a Amburgo, compresi due stupri veri e propri. In tutta la Germania, le vittime sarebbero state almeno 1950.
Altri 12 crimini del genere, tra cui otto assalti sessuali, furono denunciati nel maggio del 2016 a Berlino, durante il weekend delle Pentecoste. Fu al Carnevale delle Culture di Kreuzberg, e furono arrestati in sette con l’accusa di furto, e altri quattro per assalto sessuale. Origini: tunisina, marocchina, libica, algerina. Due casi si riferivano a due ragazze di 17 e 18 anni circondate e molestate da un gruppo di una decina di oriundi turchi e libanesi. Un terzo caso era quello di una sedicenne. Il quarto si riferiva a una 22enne, per la cui aggressione fu arrestato un oriundo turco quarantenne. Altre tre denunce ci sono state a proposito del Carnevale di Colonia Un 17enne richiedente afghano arrestato per stupro di una 22enne fu poi rilasciato, ma dopo l’arresto di un altro 17enne che si trovava nel suo stesso residence. Anche un richiedente asilo nigeriano 29enne fu arrestato per sospetto di stupro di una 24enne. Di nuovo a Darmstadt, in Assia, 26 donne denunciarono di essere state molestate nel corso di un festival musicale che dal 25 al 29 maggio raccolse tra le 300 e le 400.000 persone. In seguito alle denunce, la polizia arrestò tre uomini di origine pakistana di età compresa tra i 28 e i 31 anni: due di loro richiedenti asilo, il terzo residente in Germania da lungo tempo. Tra i 16 e i 25 anni era l’età della maggior parte delle denuncianti. Nel rivelare la cosa il portavoce della polizia precisò però che solo 14 donne avevano presentato denuncia formale. Comunque, “tutte hanno lamentato di essere state circondate da piccoli gruppi di uomini che la hanno toccate in modo non appropriato”, dichiarò un portavoce.
L’effetto emulativo era evidente, e in qualche caso era evidente anche l’organizzazione. Gli assalti ripetono un tipo di tecnica largamente usato al Cairo, e di cui al tempo della Rivoluzione di Tahrir erano finite vittime anche varie reporter europee. D’altra parte, un imam aveva pure detto che la colpa era delle donne: troppo “svestite e profumate”.
I delitti però non li commettono solo gli immigrati. “Inaccettabile!”, il Ministro dell’Interno tedesco Thomas de Maizière definì quel rapporto sulla criminalità dell’aprile 2017 secondo il quale dopo l’arrivo in Germania di un milione di stranieri richiedenti asilo c’era stato un boom di “delitti politici”: non solo commessi da stranieri, ma anche commessi da un’estrema destra che gli stranieri non li vuole. Ultimissimo caso, quello di un 28enne tenente dell’esercito che era stato arrestato con l’accusa di stare preparando un attentato anti-immigrati. Una vera e propria guerra civile strisciante tra jihadisti e xenofobi.
“La brutalità nella nostra società è preoccupante”, aveva pure commentato de Mazière: riferendosi non solo al numero dei crimini, ma anche al tipo di linguaggio che domina sempre più nelle Reti Sociali. Secondo le cifre presentate dallo stesso Ministero dell’Interno, infatti, nel 2016 i delitti con motivazione politica “commessi da stranieri o in base a ideologie straniere”, cioè compresi quelli fatti da tedeschi convertiti all’Islam estremista, erano stati 3372: il 66,5% in più, rispetto all’anno prima. Si trattava ancora di una componente minore, rispetto al totale dei “delitti con motivazione politica”: 41.500. Benché questa fosse la cifra più alta da quando nel 2001 ha iniziato a essere fatto questo tipo di registrazione, l’aumento del 6,6% del totale era appena un decimo dell’aumento attribuito a stranieri e ideologie straniere. La maggior parte di questi delitti erano attribuibili a ideologie di estrema destra: 23.555, corrispondente a un aumento del 2,6%. I delitti politici motivati da ideologie di estrema sinistra erano stati 9400, con un aumento del 2,2%. La metà dei delitti politici relativi a stranieri o ideologie straniere riguardava islamisti radicali o militanti del Pkk curdo. Nel caso in particolare di crimini attribuiti a jihadisti la crescita era stata del 13.7%: compresi gli investimenti indiscriminati dei visitatori del mercatino di Natale di Berlino, in cui il 19 dicembre del 2016 morirono 12 persone, e altri 56 rimasero feriti.
Sebbene particolarmente importante in tempi di terrorismo jihadista, la statistica sui delitti politicamente motivati non esauriva però l’intera gamma dei reati commessi da stranieri. Il numero totale degli stranieri indagati era stato infatti nel corso del 2016 di 174.378, con un aumento rispetto al 2015 del 52,7%. De Maizière chiarì che “alcuni degli stranieri sono recidivi”, e che dunque in realtà i criminali erano meno di quello che potrebbero sembrare dalla lettura dei dati. Ma evidentemente quel che si riguadagna allora in quantità si perde in qualità: meno stranieri delinquenti, ma questi sono in media più cattivi. De Mazière aveva aggiunto che anche la maggior parte delle vittime di questi delitti sono stranieri, collegando molti delitti con le condizioni di precarietà in cui vivono molti rifugiati e richiedenti asilo in Germania, ammucchiati in campi di rifugiati provvisori. Marginalità a parte, molti di questi delitti di stranieri su stranieri sono legati a quelle situazione di conflitto etnico, politico o religioso da cui i richiedenti asilo scappano, ma che finiscono poi per portarsi appresso. Vedasi ad esempio le vessazioni dei musulmani sui cristiani, o le faide tra turchi e curdi. Un effetto dell’arrivo in massa di stranieri è stato anche l’aumento dei crimini xenofobi e antisemiti, che sono cresciuti del 5,3%, fino ad arrivare ai 10.751 casi. Il rapporto ricordava che gli attacchi ad ostelli ospitanti stranieri sono stati 994: una cifra più o meno allineata a quella del 2015. D’altra parte, come già ricordato, lo stesso ingresso non autorizzato è un reato che basta da solo a far pencolare le statistiche in un senso o nell’altro. Se non si conta, infatti, in Germania nel 2016 sono stati commessi 5.920.000 reati: lo 0,7% in meno, rispetto al 2015. Se si conta, invece, arriviamo a 6.370.000: lo 0,7% in più!
Maurizio Stefanini
Terza puntata dell’inchiesta di Maurizio Stefanini sulla politica dell’immigrazione nei vari paesi europei. Dopo la Spagna e la Francia, la Germania.