Se non avete visitato Trento, fatelo. Trento è una bella città che merita una bella occhiatona, con calma. Se si arriva in mattinata ci si può fermare a Piedicastello e salire sul Doss Trento. Grande monumento a Cesare Battisti. Al di là della retorica fascista, uno pensa subito “beh, c’è Cesare Battisti e Cesare Battisti”. Salendo, la città si svela, sotto, verso est. E poi c’è il Museo degli Alpini. E anche le due Gallerie dove casualmente ho visto due bellissime mostre: la prima sui trentini combattenti in Galizia (loro, ragazzi nati sulle montagne più belle del mondo, spediti a combattere là, nelle pianure sterminate a fangose oltre i “Monti Scarpazi”); la seconda, sull’alluvione del ’66. Se arriva l’ora di pranzo, tranquilli. Proprio sotto il Doss Trento ci sono due trattorie. Una è perfino stellata. Quindi io prediligo l’altra. Cucina casalinga, saporita, semplice, di stagione. Mi piace mangiare dove si mangia come nelle case in cui si mangia bene: “la cucina della nonna Annetta”, poi tramandata a mia mamma, Daria, dalla quale ho cercato fin da ragazzino di (ap) prendere.
Passeggiata nelle belle vie del Centro, “Gir al Sass”. Piazza Duomo, la casa di Cesare Battisti un po’ lasciata andare l’ultima volta che son passato. Penso sì alla retorica fascista. Penso anche al Duce e alla volontà di fare di Battisti un simbolo del regime. Propaganda. Mi viene in mente quella lettera secca di Ernestina Bittanti Battisti, la vedova, donna di grande cultura e giornalista coraggiosa: un pugno sul naso al Duce.
Dietro l’angolo ci sarebbe l’Università ma andiamo in direzione opposta, quattro passi su verso il Castello del Buonconsiglio. Fucina della storia dell’Europa Moderna. Fucina di “strangolapreti”, stando alla tradizione. Nel cortile le celle dei condannati a morte, Fabio Filzi, Damiano Chiesa (roveretani, ci torneremo) e lui, Cesare Battisti. Il luogo dell’esecuzione. Orrore. Offeso in quell’abito civile a quadrettoni fuori taglia. E poi quella impiccagione strana, per noi, abituati ai film western, forche o ramo d’albero, poveri corpi che penzolano nel vuoto e pensiero a “tutti morimmo a stento”. No. Una specie di asse, piedi a pochi centimetri da terra. Due laccetti. Boia che sorride. Faccia da birraio. Baffuto e pingue, come la sua bombetta. Tutti soddisfatti.
Catturato a nord del Pasubio e tradotto subito a Trento nei giorni della coda lunga della “spedizione di primavera” (che, con un po’ di coda di paglia abbiamo chiamato “spedizione punitiva”). Oggi quella cima si chiama Corno Battisti. Prigioniero esibito per le strade. Processato in modo rapido. Efficiente. Implacabile. Giustizia esibita. Morte ostentata. Magia della macchina fotografica, notizia diffusa in un baleno. Ma è un boomerang che provoca indignazione, come mezzo secolo dopo la foto del “Che” su quel tavolo di lavanderia.
Brutti pensieri. Brutti. Che brutti. Che non se ne vanno neppure alla Cantinotta, dove, stando a quel che si legge, i due splendidi artefici del ’68 trentino (la testa fine, Marco Boato e l’impeto creativo, Mauro Rostagno) giocavano alla “morra” bevendo Teroldego con Bruno Kessler, democristiano che tanto aveva fatto per l’istituzione della facoltà di Sociologia (“averne” democristiani così, vien da dire). Curiosa storia quella del rapporto tra la silenziosa, austera e quasi un po’ impettita Città e la colorata e chiassosa presenza degli studenti confluiti a “sperimentare l’esperimento” di Sociologia a Trento. Capelli lunghi e rivoluzione. Tette al vento ed emancipazione. Non c’è rivoluzione senza emancipazione. Chiaro no?
Si dice che la città fosse rimasta piacevolmente sorpresa dal loro sbadilare fango in quel novembre del ’66. Poi si è imbronciata con loro il 4-11-68 per la protesta e provocazione a guastar la festa del cinquantennale della Vittoria. Arrivano i soldi per l’Auditorium, 600.000 milioni di lire col Presidente Saragat. E loro, gli studenti, diffondono quel volantino in cui su per giù (vado a memoria) scrivono “600.000 milioni di lire per 600 posti di 600 borghesi che canteranno il requiem per 600.000 mila proletari morti al fronte”. Eppure non faceva una piega. Ma è finita a calcinculo. Gli alpini, si racconta, han preso a calcinculo gli studenti. Avevano ragione tutti e due, mi pare. Solo che non si sono spiegati, mi pare. È mancato l’incontro. O forse mi sono troppo simpatici gli alpini e mi sento troppo vicino agli studenti. È finita un po’ “a schifio”, per dirla con Giampaolo Zancan. È finita con quella scritta sul muro “putane e capeloni andè via”.
Claudio Zucchellini
Leggi qui le prime due puntate di Storia e storie camminando lungo il fronte, dal Tonale al Carso: